Scorie - Il sostenitore della tassa sui buy-back è un liberale serio o è seriamente un comunista?
L'autunno si avvicina, e con esso il tempo di impostare la legge di bilancio per l'anno successivo. Periodo nel quale chi governa promette di beneficiare questo o quel segmento di popolazione con bonus o riduzioni di tasse, arrabattandosi poi per trovare coperture che non di rado sono una tantum a fronte di spese strutturali.
Una delle coperture che mette d'accordo più o meno tutti (tranne quando sono all'opposizione, ma quella è per lo più tattica politica) è una tassazione straordinaria da imporre alle banche. C'è stata la stagione degli "extraprofitti" e adesso, su iniziativa leghista contrastata per ora da Forza Italia, c'è l'idea di tassare i buy-back, ossia i programmi di acquisto di azioni proprie.
Ci si attenderebbe una critica da parte di giornalisti che vanno dicendosi liberali da decenni, e invece mi è toccato di leggere una difesa di questa proposta a firma di Osvaldo De Paolini su Moneta, da lui diretto e disponibile per i lettori di Libero, il Giornale e il Tempo.
Scrive De Paolini:
"In tempi di magra, anche i liberali – quelli veri, non i selfie con la giacca blu – devono fare i conti con la realtà. E la realtà, oggi, dice che lo Stato italiano, per chiudere una manovra finanziaria dai contorni più acrobatici che contabili, vuole mettere una tassa sui buy-back, in particolare delle banche. Il tutto, con la faccia seria di chi ha scoperto il segreto della redistribuzione giusta. Reazione immediata: urlo in falsetto degli azionisti, sdegno dei banchieri, corridoi di Bruxelles preoccupati per la stabilità del credito. Ma sotto sotto, anche qualche liberale onesto che, tra un caffè e un bilancio, ammette: forse, forse non è del tutto follia."
Ero convinto che un liberale "onesto" indicasse nei mille miliardi di spesa pubblica il posto ideale dove cercare i possibili risparmi, ma evidentemente De Paolini ritiene che sia tutta spesa incomprimibile e "liberale".
Per cercare di giustificare la "non follia", da un punto di vista liberale, della tassa proposta, De Paolini dipinge i buy-back con argomentazioni che forse farebbero arrossire anche un comunista non pentito (di essere tale nel XXI secolo).
Secondo il nostro, infatti, si tratta di "quel meccanismo in cui un'azienda, invece di investire, innovare o semplicemente risparmiare, riacquista le proprie azioni sul mercato, alzandone il valore e, di riflesso, premiando gli azionisti e naturalmente i propri manager. Il tutto, in modo legale. Anzi, elegantemente tecnico. Ma profondamente, va detto chiaro, inefficiente per la collettività."
Tornerò a breve sulla inefficienza per la collettività, altro concetto a cavallo tra il veterocomunismo e una delle sue versioni più recenti, ovvero la "S" di ESG.
Ammonisce De Paolini:
"Non serve fare nomi, nel mirino ci sono quasi tutte le banche quotate e qualche grande company. Milioni, anzi miliardi, destinati a programmi di riacquisto titoli, mentre nel Paese reale si fatica a pagare il mutuo che lievita anche quando i tassi scendono. Nessun illecito, sia chiaro. Solo una gestione patrimoniale furba, ottima per gonfiare le stock option del management e tenere allegri gli investitori di breve termine."
De Paolini non dice ai suoi lettori che, soprattutto nel caso delle banche, i buy-back non solo devono essere deliberati, prima che dal consiglio di amministrazione, dall'assemblea dei soci, a cui evidentemente sta bene quanto proposto dal management, ma possono essere effettuati solo a fronte di un patrmonio superiore a quello indicato annualmente dalle autorità di vigilanza (BCE o Banca d'Italia a seconda delle dimensioni della banca). Autorità che potrebbero anche vietare i programmi di buy-back, al pari della distribuzione di utili, se ritenessero che ciò contrastasse con la "sana e prudente gestione".
Ciò detto, l'aumento dell'utile per azione e del prezzo di mercato del titolo (a parità di altre condizioni) che consegue a piani di buy-back va certamente a vantaggio di azionisti e manager apicali, ma questa forma di restituzione di patrimonio in eccesso è anche giustificata dal fatto che non esistano impieghi con rendimenti attesi superiori al costo del capitale stesso.
Quindi rispondono a una logica di utilizzo efficiente del capitale, nell'ambito del quadro normativo e regolanmentare vigente. Probabilmente De Paolini potrebbe discutere di quello, invece che tentare di giustificare in ottica liberale una tassa usando argomentazioni da comunista e invocando una non meglio definita inefficienza per la collettività. Ma tant'è.
A suo parere, questa tassa "non è più un attacco all'impresa, né un tic statalista da baraccone. Ma diventa un doveroso segnale di civiltà fiscale, che chiede a chi ha avuto molto (grazie, va detto, anche al rialzo dei tassi garantito dalla Bce) di restituire un po' al sistema che lo ha reso ricco. Non tutto, solo una piccola parte, un "pizzicotto" secondo il lessico del ministro Giancarlo Giorgetti. Un "grazie" con ricevuta, diciamo noi."
Ora, di argomenti per criticare le banche ne esistono a bizzeffe, ma di tasse ne pagano decine di miliardi ogni anno, oltre a svolgere gratuitamente per conto dello Stato diverse attività (dal sostituto d'imposta, non solo sui redditi dei propri dipendenti, alle verifiche antiriciclaggio, per fare solo un paio di esempi). Oltre a Ires e Irap maggiorate, sono anche soggette a (grottesche) spalmature pluriennali (più volte rispalmate, da ultimo lo scorso anno) di imposte anticipate anni addietro. Quindi non è che facciano utili e allo Stato non vada nulla. Anzi.
Lo si potrà definire diversamente da "tic statalista da baraccone", ma la sostanza è proprio quella e di certo non ci vedo nulla di "doveroso segnale di civiltà fiscale".
Va da sé che, per giustificare la sua svolta che probabilmente potrebbe guadagnargli un gesto di approvazione da parte di Maurizio Landini (noto fautore del motto: "i soldi vanno presi dove sono"), De Paolini deve cercare di ribaltare un po' di concetti liberali.
"I difensori del libero mercato – quelli di scuola vecchia, con la copia di von Hayek sul comodino – sobbalzeranno. Eppure, anche nel manuale del perfetto liberale c'è un principio semplice: senza responsabilità sociale, la libertà d'impresa è solo un privilegio. E i buy-back, almeno come oggi vengono praticati, di responsabile hanno poco. Perché, diciamolo chiaro: il buy-back non è solo un modo per premiare l'azionista, è una scappatoia per il management, che anziché guadagnarsi il rispetto con i numeri, se lo compra in Borsa con il denaro dell'azienda. Un'autopromozione, insomma, più teatrale che meritocratica. E anche se il sistema li premia, la società civile – quella che paga le imposte, chiede mutui, apre aziende – spesso resta con il tradizionale pugno di mosche."
Qui c'è una ripetizione di concetti già espressi, forse perché lui stesso faceva fatica a convincersi di quello che stava scrivendo. Quanto alla libertà d'impresa come privilegio e al richiamo alla responsabilità sociale, giova ripetere che non stiamo parlando di organizzazioni senza fini di lucro, per di più sottoposte a un consistente impianto normativo e regolamentare. Discutibile quanto si vuole, ma si discuta quello, invece di giustificare l'uso del randello fiscale come strumento liberale.
E invece, secondo De Paolini, "la tassa – purché disegnata con intelligenza – diventa un argine. Non una punizione, ma un promemoria: che il capitale privato vive dentro un ecosistema fatto di regole comuni, di investimenti pubblici, di fiducia collettiva. E che se decidi di usare gli utili per far contenti i tuoi azionisti di passaggio, invece di rafforzare la banca o sostenere l'economia reale, allora un piccolo contributo straordinario lo puoi pure versare. Non per punizione, ma per decenza."
Un liberale vero, Maffeo Pantaleoni, credo che parlerebbe di imbecillità invece che di intelligenza di fronte a questa proposta.
Forse in preda a qualche rimorso (o vergogna), De Paolini aggiunge:
"Naturalmente, la misura deve avere senso. Non si può colpire alla cieca. Deve essere proporzionata, trasparente, deducibile se reinvestita in capitale o credito. Insomma: non una mazzata ideologica, ma un meccanismo incentivante che scoraggi la finanza autoreferenziale e premi chi lavora per il lungo periodo."
Non credo che si tratterebbe, se vedrà la luce, di una "mazzata ideologica", ma semplicemente di un modo veloce e da facile consenso di popolo per trovare risorse. La parte ideologica, paradossalmente, la mette De Paolini e non certo il principale fautore della tassa, ossia il noto "liberale" Matteo Salvini.
Tuttavia De Paolini precisa:
"E sia chiaro: non si tratta di demonizzare il profitto. Ma di domandare: che tipo di profitto vogliamo? Quello fondato sull'efficienza, sull'innovazione, sul servizio, o quello che si autoalimenta nei corridoi dei consigli d'amministrazione? Perché quando il secondo diventa la norma, la finanza smette di essere motore dell'economia e diventa solo un grande spettacolo di prestigio. Applaudito dai mercati, ma fischiato dalla realtà."
Ero convinto, ma evidentemente non mi sono aggiornato, che il profitto, purché non derivasse da furto o altre violazioni di proprietà altrui, non dovesse essere di particolari tipologie per un liberale.
E invece per De Paolini, "anche il liberale serio – non il caricaturale libertario che urla "Stato sovietico" ogni tre parole – può sostenere questa tassa. Non con entusiasmo, ma con lucidità. Non come soluzione, ma come gesto educativo. Non come ideologia, ma come antidoto a un capitalismo miope e autoreferenziale, che così facendo rischia di distruggere se stesso dall'interno."
Suppongo di poter essere annoverato tra i libertari che urlano "Stato sovietico", anche se non lo faccio ogni tre parole, ma sono convinto che non sia necessario essere rothbardiani per contrastare questa idiozia fiscale. E trovo preoccupante che si cerchi di far passare per liberalismo addirittura l'uso del fisco come "gesto educativo".
Questo è perfino peggio del comunismo.
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