Scorie - Accordo (o disputa) tra bande concorrenti

Commentando il recente accordo di principio raggiunto dai ministri delle Finanze del G7 sulla proposta dell'amministrazione statunitense di istituire una global minimum tax del 15% sulle imprese, Mauro Marè mette in evidenza i punti critici. Scrive Marè:

"L'accordo è sulle aliquote, ma si deve estendere alla base imponibile e alla sua distribuzione nazionale. La definizione della base è ancora un problema irrisolto e da anni tiene l'inclusive framework dell'Ocse impegnato. Dal comunicato stampa dell'accordo del G7 si evince che le implicazioni pratiche vanno tutte definite. Come sempre, il diavolo è nei dettagli."

Aggiungendo poi:

"Un'aliquota sui profitti del 15% è troppo bassa, dovrebbe essere almeno del 25%, ma meglio 15 che niente. L'aliquota dovrebbe essere vicina all'aliquota minima delle imposte personali, che in molti Paesi Ocse è vicina al 25% (in Italia il 23), per ovvi motivi di allineamento tra le due imposte."

E chi lo dice che l'aliquota del 15% è troppo bassa? Per poterlo sostenere si deve, quantomeno implicitamente, partire dal presupposto che le risorse oggetto di tassazione siano in realtà di proprietà dello Stato, il quale deciderebbe, di fatto, quanto lasciare ai privati che le hanno prodotte. CIò equivale a ritenere che i produttori di ricchezza siano schiavi dello Stato.

Per di più è evidente che le imprese, in quanto tali, non beneficiano di alcun reddito. In ultima analisi i redditi in questione risultano sempre in capo a persone fisiche, soggette a tassazione sugli stessi. Gli Stati peraltro lo riconoscono quando richiedono l'individuazione dei beneficiari effettivi ai fini delle norme antiriciclaggio.

Prosegue Marè:

"La condizione decisiva di questo accordo, posta soprattutto dagli Usa, è che i Paesi europei rinuncino alle web tax. L'unica spiegazione di questa richiesta è che questo tipo di imposte siano molto fastidiose per gli operatori digitali. Dal punto di vista degli effetti del tributo, è vero che un'imposta sulle vendite può essere distorsiva, finire sui prezzi al consumo e causare effetti di duplicazione dell'imposta. La traslazione dell'imposta in avanti non sembra di per sé un problema, perché come sappiamo anche quella sulle società, come dimostrano 60 anni di studi sull'incidenza delle imposte, finisce per passare sui prezzi e/o sui salari. Anzi in alcuni casi – come per le imposte sui consumi – la traslazione in avanti è proprio ciò che si vuole."

Se l'imposta finisce per essere traslata, a sostenerne realmente l'onere saranno sempre soggetti diversi da quelli che la pagano allo Stato. Ma se si parte dal presupposto che siano talune imprese a pagare poche tasse, è quanto meno contraddittorio sostenere poi che vada bene la traslazione, o che possa addirittura essere un effetto desiderato.

Da ultimo, Maré critica un altro passaggio dell'ipotesi finora circolata.

"Infine, andrebbe approfondita l'affermazione della volontà di trasferire i taxing right ai vari Paesi Ocse su «almeno il 20% dei profitti superiori al margine del 10%» (considerato il rendimento normale) delle aziende multinazionali più profittevoli. È un bene che parte dei profitti delle multinazionali siano riallocati sul piano territoriale. Ma come è stata calcolata questa percentuale? E perché si è deciso che il tasso di rendimento normale debba essere fissato al 10%?"

In effetti qualsiasi definizione di "rendimento normale" è arbitraria, ma lo è anche la fissazione delle aliquote. D'altra parte, però, il problema principale resta quello accennato all'inizio: se si ritiene che esistano "taxing right", significa che si ritiene che i proprietari delle risorse non siano coloro che le hanno prodotte, bensì gli Stati.

Come si fa a non vedere che si tratta di dispute tra bande concorrenti?


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