Scorie - Una proposta originale per (peggiorare) la crisi
"All'Europa è arrivato forte e chiaro il messaggio che così come stiamo
andando non va bene… potremo fare un'operazione keynesiana straordinaria in
5 anni: più di 150 miliardi di euro."
(M. Renzi)
In Italia (e non solo) l'offerta politica di qualsiasi partito o movimento
che si presenta a qualsivoglia competizione elettorale è, con rare
eccezioni che solitamente (ahimè) finiscono nell'irrilevanza, una
variazione sul tema keynesiano. Magari in alcuni casi le proposte sono più
conformi agli scritti originali del "maestro" e in altri meno, ma tutte
hanno come punto di partenza l'intervento dello Stato per "favorire la
crescita e l'occupazione", o incentivi a questo o quel settore.
Il tutto, ovviamente, utilizzando la leva fiscale e la spesa pubblica. Una
delle rivendicazioni di lungo periodo del variopinto universo keynesiano
consiste nella distinzione tra spesa corrente e spesa per investimenti. Per
fare un paio di esempi, lo stipendio di un dipendente pubblico è spesa
corrente, mentre la costruzione di un ponte è considerata un investimento.
Passi pure per la distinzione, anche se la conseguenza che ne traggono i
keynesiani risulta essere fuorviante. Si tratta dell'idea di non
considerare la spesa per investimenti nel calcolo del deficit pubblico (la
cosiddetta "golden rule"), perché a fronte della spesa si costruisce un
bene che produrrà reddito direttamente o indirettamente.
Credo che i problemi di questo ragionamento siano molteplici. Il primo, e
più generale, consiste nel fatto che a stabilire cosa è un investimento
sarebbero gli stessi che propongono la golden rule. La storia, non solo
italiana, è piena di "investimenti" pubblici e di imprese pubbliche che
sono stati autentiche idrovore di denaro finiti nel fallimento o, nella
migliore delle ipotesi, sono costati un multiplo di quello che sarebbero
costati se fatti da privati. E spesso solo la volontà politica ha
consentito di definire tali spese "investimenti", così come con un
provvedimento legislativo si pretende di stabilire come debba essere fatta
una banana per essere definita tale.
In secondo luogo, a definire l'opportunità di un investimento pubblico e a
sopportarne gli oneri non sono coloro che decidono che si debba fare, bensì
coloro che sono costretti a pagare le tasse, spesso neppure elettori di chi
decide.
Last, but not least, che si tratti di spesa corrente o di investimento, le
risorse devono comunque essere trovate. Se non le si trova con la
tassazione attuale, occorre fare deficit (tasse future o inflazione
futura). Supporre che basti la volontà politica per non considerare deficit
una spesa per finanziare la quale non basta il gettito fiscale si scontra
con la necessità di far quadrare la cassa.
Chi, come Renzi, parla (a vanvera, a mio parere) di operazioni keynesiane
da centinaia di miliardi suppone che i soldi debbano essere messi
dal'Unione europea. Ma anche in questo caso, ogni spesa che oltrepassi la
somma dei contributi che i singoli Paesi membri versano prelevandoli dalle
tasche dei rispettivi cittadini o facendo deficit in casa propria deve
essere finanziata mediante debito emesso dall'Unione stessa. E anche questo
debito, prima o poi, comporterà un aumento di tasse per i cittadini
europei.
Come sempre, nessun pasto è gratis. Se le operazioni keynesiane fossero
davvero l'elisir per la crescita economica, non si spiegherebbe come mai
l'eredità di 80 anni di keynesismo in giro per il mondo consista per lo più
in una montagna di debito (a volte neppure riconosciuto ufficialmente, come
le passività implicite in tutti i sistemi di welfare pubblico) che si
continua a far finta sia sostenibile.
Ora, solitamente i difensori del keynesismo rivoltano la questione
sostenendo che veniamo da "trent'anni di neoliberismo". Qui credo sia utile
tornare a quanto ho accennato iniziando questo pezzo: la quasi totalità di
chi si candida a governare (da un comune di poche anime agli Stati Uniti) è
keynesiano, ancorché si dichiari liberale o liberista (lo stesso KEynes,
peraltro, si considerava liberale). Lo è nella sostanza, ogni volta che, a
prescindere da quello che dice, non agisce per ridurre il raggio d'azione
del proprio governo, riducendo tanto la spesa quanto le tasse. Lo sono
stati, per fare alcuni esempi, le amministrazioni di Reagan e Bush negli
Stati Uniti, così come i governi di Berlusconi in Italia, ancorché sia
luogo comune affermare il contrario.
Lo è, a prescindere dalla dichiarazione che ho riportato, anche il governo
Renzi. Chi vuol esser lieto sia, disse un suo illustre concittadino qualche
secolo fa…
andando non va bene… potremo fare un'operazione keynesiana straordinaria in
5 anni: più di 150 miliardi di euro."
(M. Renzi)
In Italia (e non solo) l'offerta politica di qualsiasi partito o movimento
che si presenta a qualsivoglia competizione elettorale è, con rare
eccezioni che solitamente (ahimè) finiscono nell'irrilevanza, una
variazione sul tema keynesiano. Magari in alcuni casi le proposte sono più
conformi agli scritti originali del "maestro" e in altri meno, ma tutte
hanno come punto di partenza l'intervento dello Stato per "favorire la
crescita e l'occupazione", o incentivi a questo o quel settore.
Il tutto, ovviamente, utilizzando la leva fiscale e la spesa pubblica. Una
delle rivendicazioni di lungo periodo del variopinto universo keynesiano
consiste nella distinzione tra spesa corrente e spesa per investimenti. Per
fare un paio di esempi, lo stipendio di un dipendente pubblico è spesa
corrente, mentre la costruzione di un ponte è considerata un investimento.
Passi pure per la distinzione, anche se la conseguenza che ne traggono i
keynesiani risulta essere fuorviante. Si tratta dell'idea di non
considerare la spesa per investimenti nel calcolo del deficit pubblico (la
cosiddetta "golden rule"), perché a fronte della spesa si costruisce un
bene che produrrà reddito direttamente o indirettamente.
Credo che i problemi di questo ragionamento siano molteplici. Il primo, e
più generale, consiste nel fatto che a stabilire cosa è un investimento
sarebbero gli stessi che propongono la golden rule. La storia, non solo
italiana, è piena di "investimenti" pubblici e di imprese pubbliche che
sono stati autentiche idrovore di denaro finiti nel fallimento o, nella
migliore delle ipotesi, sono costati un multiplo di quello che sarebbero
costati se fatti da privati. E spesso solo la volontà politica ha
consentito di definire tali spese "investimenti", così come con un
provvedimento legislativo si pretende di stabilire come debba essere fatta
una banana per essere definita tale.
In secondo luogo, a definire l'opportunità di un investimento pubblico e a
sopportarne gli oneri non sono coloro che decidono che si debba fare, bensì
coloro che sono costretti a pagare le tasse, spesso neppure elettori di chi
decide.
Last, but not least, che si tratti di spesa corrente o di investimento, le
risorse devono comunque essere trovate. Se non le si trova con la
tassazione attuale, occorre fare deficit (tasse future o inflazione
futura). Supporre che basti la volontà politica per non considerare deficit
una spesa per finanziare la quale non basta il gettito fiscale si scontra
con la necessità di far quadrare la cassa.
Chi, come Renzi, parla (a vanvera, a mio parere) di operazioni keynesiane
da centinaia di miliardi suppone che i soldi debbano essere messi
dal'Unione europea. Ma anche in questo caso, ogni spesa che oltrepassi la
somma dei contributi che i singoli Paesi membri versano prelevandoli dalle
tasche dei rispettivi cittadini o facendo deficit in casa propria deve
essere finanziata mediante debito emesso dall'Unione stessa. E anche questo
debito, prima o poi, comporterà un aumento di tasse per i cittadini
europei.
Come sempre, nessun pasto è gratis. Se le operazioni keynesiane fossero
davvero l'elisir per la crescita economica, non si spiegherebbe come mai
l'eredità di 80 anni di keynesismo in giro per il mondo consista per lo più
in una montagna di debito (a volte neppure riconosciuto ufficialmente, come
le passività implicite in tutti i sistemi di welfare pubblico) che si
continua a far finta sia sostenibile.
Ora, solitamente i difensori del keynesismo rivoltano la questione
sostenendo che veniamo da "trent'anni di neoliberismo". Qui credo sia utile
tornare a quanto ho accennato iniziando questo pezzo: la quasi totalità di
chi si candida a governare (da un comune di poche anime agli Stati Uniti) è
keynesiano, ancorché si dichiari liberale o liberista (lo stesso KEynes,
peraltro, si considerava liberale). Lo è nella sostanza, ogni volta che, a
prescindere da quello che dice, non agisce per ridurre il raggio d'azione
del proprio governo, riducendo tanto la spesa quanto le tasse. Lo sono
stati, per fare alcuni esempi, le amministrazioni di Reagan e Bush negli
Stati Uniti, così come i governi di Berlusconi in Italia, ancorché sia
luogo comune affermare il contrario.
Lo è, a prescindere dalla dichiarazione che ho riportato, anche il governo
Renzi. Chi vuol esser lieto sia, disse un suo illustre concittadino qualche
secolo fa…
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