Scorie - Lo Stato stratega
"Per favorire un processo di distruzione creativa, le imprese non vanno
lasciate sole nel gestire il salto verso l'avvenire: nuovi prodotti, anche
molto lontani dal DNA originario, nuove fasi del processo produttivo. La
scelta non è tra favorire gli amici o lasciar sempre decidere il mercato,
ma piuttosto identificare le funzioni in cui questo fallisce e i settori
che ne soffrono di più, per poi intervenire in maniera mirata. Il mercato
non è spesso all'altezza nel finanziare le attività innovative - più
rischiose e che maturano lentamente - e nel favorire la cooperazione tra
attori con logiche distinte. Solo in questi casi vale la pena mettere in
moto lo "Stato stratega", per riprendere la felice espressione di Philippe
Aghion. Questo dovrebbe focalizzarsi su formazione continua, ricerca e
finanziamento di piccole e medie imprese (che hanno bisogno di essere
capitalizzate) in pochi settori innovativi e dinamici. Una transizione
nella missione dello Stato che va accompagnata dal rinforzo di una vera
cultura della valutazione e del risultato."
(A. Goldstein)
Nelle parole che ho riportato, Andrea Goldstein fornisce un esempio quanto
mai chiaro di come ragiona uno statalista dei nostri giorni. Dato che lo
Stato imprenditore ha clamorosamente fallito e invocarne una rinnovata
funzione nella gestione diretta delle aziende suona anacronistico e un po'
veterocomunista, gli economisti "progressisti" adesso preferiscono
riservare allo Stato il ruolo di stratega. Ciò che, se possibile, è ancora
peggio.
Ovviamente per giustificare pseudo-scientificamente (altrimenti non ci si
potrebbe annoverare fra i "tecnici") lo "Stato stratega" è necessario
imputare al mercato qualche fallimento. In questo non c'è nulla di nuovo
rispetto agli ultimi 80 anni di mainstream in economia. Il fallimento
consisterebbe, secondo Goldstein, nel non riuscire a gestire correttamente
il processo di "distruzione creativa" di schumpeteriana memoria. Non tanto,
probabilmente, nella fase distruttrice, quanto in quella creativa. In
sostanza, il mercato "non è spesso all'altezza nel finanziare le attività
innovative - più rischiose e che maturano lentamente - e nel favorire la
cooperazione tra attori con logiche distinte".
In altri termini, lo stesso Stato che per decenni ha gestito o
sovvenzionato imprese per le quali il mercato avrebbe decretato il
fallimento (e anche all'epoca l'intervento pubblico era giustificato da
carenze e fallimenti del mercato), caricandone il conto sulle spalle dei
cosiddetti contribuenti, adesso dovrebbe dimostrare una lungimiranza ben
superiore a quella di milioni di soggetti privati nell'individuare "settori
innovativi e dinamici" che il mercato non è "all'altezza" di finanziare.
In ultima analisi, coloro che parlano di "fallimenti del mercato" non fanno
altro che ritenere fallimentare un esito diverso da quello che essi stessi,
soggettivamente, ritengono essere corretto o giusto. I comportamenti
volontari di milioni di individui devono pertanto essere "corretti" loro
malgrado, perché non allineati ai desiderata di chi governa e/o di chi
consiglia i governanti.
Il fatto è che se un'attività non trova finanziatori è evidente che chi
investe ritiene che i rischi non sarebbero adeguatamente remunerati.
L'intervento dello "Stato stratega" non consisterebbe in altro se non
nell'abbassare artificialmente il costo dei finanziamenti di quelle
attività, rendendole apparentemente redditizie, anche in questo caso
imponendo ai cosiddetti contribuenti di assumere rischi che da privati
investitori non assumerebbero, per di più a remunerazioni inferiori a
quelle di mercato.
Ne trarrebbero vantaggio i soggetti finanziati e i burocrati "strateghi";
vantaggi ben visibili. Meno visibili, anche perché più granularmente
spalmati, sarebbero i costi a carico dei cosiddetti contribuenti e di tutti
coloro che dovrebbero continuare a stare sul mercato con le proprie gambe
sopportando anche l'onere di finanziare indirettamente le attività
"innovative".
Se poi qualcuno avesse dei dubbi, oltre che sulla legittimità del ruolo
redistributivo dello Stato, anche sui probabili risultati (dubbi più che
legittimi, visti i precedenti storici), Goldstein indica la via da seguire:
il "rinforzo di una vera cultura della valutazione e del risultato".
Si suppone che ciò dovrebbe suonare rassicurante. Non nel mio caso.
lasciate sole nel gestire il salto verso l'avvenire: nuovi prodotti, anche
molto lontani dal DNA originario, nuove fasi del processo produttivo. La
scelta non è tra favorire gli amici o lasciar sempre decidere il mercato,
ma piuttosto identificare le funzioni in cui questo fallisce e i settori
che ne soffrono di più, per poi intervenire in maniera mirata. Il mercato
non è spesso all'altezza nel finanziare le attività innovative - più
rischiose e che maturano lentamente - e nel favorire la cooperazione tra
attori con logiche distinte. Solo in questi casi vale la pena mettere in
moto lo "Stato stratega", per riprendere la felice espressione di Philippe
Aghion. Questo dovrebbe focalizzarsi su formazione continua, ricerca e
finanziamento di piccole e medie imprese (che hanno bisogno di essere
capitalizzate) in pochi settori innovativi e dinamici. Una transizione
nella missione dello Stato che va accompagnata dal rinforzo di una vera
cultura della valutazione e del risultato."
(A. Goldstein)
Nelle parole che ho riportato, Andrea Goldstein fornisce un esempio quanto
mai chiaro di come ragiona uno statalista dei nostri giorni. Dato che lo
Stato imprenditore ha clamorosamente fallito e invocarne una rinnovata
funzione nella gestione diretta delle aziende suona anacronistico e un po'
veterocomunista, gli economisti "progressisti" adesso preferiscono
riservare allo Stato il ruolo di stratega. Ciò che, se possibile, è ancora
peggio.
Ovviamente per giustificare pseudo-scientificamente (altrimenti non ci si
potrebbe annoverare fra i "tecnici") lo "Stato stratega" è necessario
imputare al mercato qualche fallimento. In questo non c'è nulla di nuovo
rispetto agli ultimi 80 anni di mainstream in economia. Il fallimento
consisterebbe, secondo Goldstein, nel non riuscire a gestire correttamente
il processo di "distruzione creativa" di schumpeteriana memoria. Non tanto,
probabilmente, nella fase distruttrice, quanto in quella creativa. In
sostanza, il mercato "non è spesso all'altezza nel finanziare le attività
innovative - più rischiose e che maturano lentamente - e nel favorire la
cooperazione tra attori con logiche distinte".
In altri termini, lo stesso Stato che per decenni ha gestito o
sovvenzionato imprese per le quali il mercato avrebbe decretato il
fallimento (e anche all'epoca l'intervento pubblico era giustificato da
carenze e fallimenti del mercato), caricandone il conto sulle spalle dei
cosiddetti contribuenti, adesso dovrebbe dimostrare una lungimiranza ben
superiore a quella di milioni di soggetti privati nell'individuare "settori
innovativi e dinamici" che il mercato non è "all'altezza" di finanziare.
In ultima analisi, coloro che parlano di "fallimenti del mercato" non fanno
altro che ritenere fallimentare un esito diverso da quello che essi stessi,
soggettivamente, ritengono essere corretto o giusto. I comportamenti
volontari di milioni di individui devono pertanto essere "corretti" loro
malgrado, perché non allineati ai desiderata di chi governa e/o di chi
consiglia i governanti.
Il fatto è che se un'attività non trova finanziatori è evidente che chi
investe ritiene che i rischi non sarebbero adeguatamente remunerati.
L'intervento dello "Stato stratega" non consisterebbe in altro se non
nell'abbassare artificialmente il costo dei finanziamenti di quelle
attività, rendendole apparentemente redditizie, anche in questo caso
imponendo ai cosiddetti contribuenti di assumere rischi che da privati
investitori non assumerebbero, per di più a remunerazioni inferiori a
quelle di mercato.
Ne trarrebbero vantaggio i soggetti finanziati e i burocrati "strateghi";
vantaggi ben visibili. Meno visibili, anche perché più granularmente
spalmati, sarebbero i costi a carico dei cosiddetti contribuenti e di tutti
coloro che dovrebbero continuare a stare sul mercato con le proprie gambe
sopportando anche l'onere di finanziare indirettamente le attività
"innovative".
Se poi qualcuno avesse dei dubbi, oltre che sulla legittimità del ruolo
redistributivo dello Stato, anche sui probabili risultati (dubbi più che
legittimi, visti i precedenti storici), Goldstein indica la via da seguire:
il "rinforzo di una vera cultura della valutazione e del risultato".
Si suppone che ciò dovrebbe suonare rassicurante. Non nel mio caso.
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