Scorie - Le spese intelligenti

Non passa giorno senza che i keynesiani nostrani forniscano dimostrazione di essere più realisti del (loro) re. Come ho già avuto modo di sottolineare diverse volte, la stagione del deficit sembra non finire mai a sud delle Alpi. Quando le cose vanno male, occorre sostenere la domanda aggregata; quando le cosse vanno meno male, occorre consolidare la ripresa; quando le cose vanno bene, non bisogna tarpare le ali alla crescita del Pil.

In sostanza, un calo del deficit (anche solo prospettico e non necessariamente realizzato ex post) è sempre visto come sinonimo di austerità e come una autentica sventura. 

Se dovessi eleggere il presidente si una ipotetica associazione nazionale keynesiana, opterei per Gustavo Piga, del quale, dopo circa tre lustri, non ricordo di aver letto un solo articolo in cui non denunciasse la politica austera del governo di turno. Il tutto mentre la finanza pubblica non dava segni di miglioramento, se non temporaneo.

Ovviamente per Piga il problema era, ed è ancora, la qualità della spesa, non indirizzata in misura sufficiente a quegli investimenti in grado di fare impallidire l'evangelica moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Da ultimo, Piga attribuisce all'atteggiamento austero della Ue la risalita del consenso elettorale di Marine Le Pen in Francia.

"Qualunque possa essere l'esito del secondo turno, la Ue sembra nuovamente essersi impelagata in una situazione con rischi eccessivi di implosione interna. La coazione a ripetere dell'Ue è dunque sempre quella, di giocare col fuoco: prima nel Regno Unito, con Brexit, bruciandosi, ora in Francia. Qualsiasi europeista convinto dovrebbe chiedersi dove risieda la fonte di questi errori drammatici che mettono a repentaglio il progetto istituzionale più importante del nostro continente, capace di assicurarci tre quarti di secolo senza guerre. I dati citati dall'analisi del voto puntano il dito verso un fallimento delle politiche economiche a favore soprattutto delle classi più deboli e fragili: è dunque la politica fiscale europea a essere chiamata sul banco degli imputati, come lo fu quasi 100 anni fa da Keynes, quando l'economista ebbe modo di avvertirci dei rischi drammatici che provenivano da un Trattato di Versailles mirato a levare ossigeno all'economia tedesca."

Dalla Francia all'Italia il passo è breve.

"Oggi la politica fiscale europea fallisce, paradossalmente, ovunque un Paese sia in difficoltà; e dunque fallisce, più di qualsiasi altro luogo, nel nostro Paese. Il recente Def lo dimostra appieno. Lo abbiamo letto prendendo atto del grave calo, rispetto alla Nadef autunnale dello stesso governo Draghi, della crescita in atto per il 2022, quasi dimezzata dal 4,7% al comunque ottimistico 3,1%, un dato che ci obbliga a prendere atto che nemmeno a fine di quest'anno riusciremo ad avere recuperato i livelli di produzione pre-Covid di fine 2019. Una performance negativa unica in quell'Europa da cui ci allontaniamo inesorabilmente, scesi come siamo, dall'inizio del secolo, dal 19% al 14% del peso economico nell'area dell'euro."

Ed ecco la critica al Def austero.

"È in tale contesto che abbiamo dunque aperto il Def, certi di trovarvi una politica fiscale espansiva attenta a venire in soccorso all'emergenza in cui si trovano famiglie e imprese. Nulla di tutto ciò: non solo il deficit/Pil resta ancorato a quello dichiarato (5,6%) nella Nadef quando la crescita prevista era ben più alta, ma, a guardare con attenzione, si prevede che il disavanzo primario sia ulteriormente diminuito dal 2,7 al 2,1% di Pil. È questa una mossa austera che deprime la nostra economia, colpita da guerra e pandemia, ulteriormente. A qualcuno potrebbe venire in mente che il governo abbia valutato che la nuova crisi energetica e bellica possa avere meno ripercussioni di quella del Covid che va esaurendosi. Sarebbe un ennesimo grave errore di sottovalutazione: al Covid si aggiunge, non si sostituisce, l'attuale drammatica contingenza internazionale; per quanto la crisi sanitaria sia tecnicamente vicina, lo speriamo, a un suo termine, le sue cicatrici di pessimismo che impediscono agli imprenditori di pianificare nuovi investimenti sono ancora vive. È la consapevolezza di questo stato delle cose che ha portato l'amministrazione Biden a non cessare con l'acceleratore di deficit pubblici negli anni Covid, al di sopra al 10% di Pil per far ripartire volontà e ottimismo imprenditoriali negli Stati Uniti."

Per inciso, bisognerebbe ricordare a Piga un paio di cose: in primo luogo, che il costo del debito pubblico esploderebbe in Italia molto prima che negli Stati Uniti a fronte di reiterati deficit in doppia cifra; in secondo luogo, che perfino keynesiani come Larry Summers e Olivier Blanchard hanno criticato le politiche economiche di Biden lo scorso anno, perché stimolavano eccessivamente un'economia già in fase di surriscaldamento. L'esplosione della crescita dei prezzi al consumo, dopo quella degli asset finanziari, degli immobili e delle materie prime, dovrebbe quanto meno far riflettere Piga sugli effetti collaterali di una spesa in deficit elevata monetizzata dalla banca centrale.

Piga evidentemente non gradisce una impostazione di politica fiscale che cerchi di non far deragliare il costo del debito.

"A ben guardare, il motivo per cui abbiamo ridotto il disavanzo primario a parità di deficit è perché la spesa per interessi nel 2022 è ora prevista crescere, a causa dell'inflazione, dal 2,9% al 3,5% del Pil. E dunque abbiamo un'idea precisa di cosa determinerà da ora in poi la stance di politica economica quando siamo in tempi di crisi: non certo lo stato grave di occupazione e produzione, ma piuttosto quello dell'inflazione e della spesa per interessi, che paiono ordinare alla politica fiscale di restare ai box, austera, mentre là fuori tutto brucia."

Ecco l'alternativa.

"Spettava e spetta invece alla politica fiscale di espandere e non restringere i cordoni della borsa. Ma in maniera intelligente, non a caso: con investimenti pubblici accompagnati da una spending review che garantisca la qualità dell'operato delle stazioni appaltanti, così anche rassicurando l'Europa. Ma questo governo – dopo aver promesso per il 2021 un deficit "all'americana" dell'11,8% di Pil e averlo poi ridotto inopinatamente al 7,2%, ovvero con 100 miliardi circa in meno di investimenti (che spiegano la nostra performance economica, peggiore dell'area euro nel triennio Covid) – non pare di questa idea, in accordo con le autorità europee."

Il fatto che il deficit del 2021 sia stato inferiore a quello inizialmente previsto (peraltro oltre 7 punti di Pil non sono briciole) è dovuto a un rimbalzo del Pil migliore delle attese. Il commento di Piga è emblematico della tendenza che ricordavo all'inizio: comunque vadano le cose, anche se meglio del previsto, sul deficit spending bisogna tenere il "gas a martello", per dirla con Guido Meda.

Non dubito che ci siano spese più "intelligenti" di altre, ma tanto il ragionamento quanto la storia mi portano a escludere che ce ne possano essere di abbastanza intelligenti da generare un moto economico perpetuo, in cui più si spende in deficit e più di riducono il deficit e il debito in rapporto al Pil.

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