Scorie - La rivoluzione miracolosa
A sud delle Alpi esiste da sempre una scuola di pensiero che vede nella spesa pubblica un volano per la crescita del Pil. Una versione del moltiplicatore keynesiano molto più miracolosa di quella originale. L'andamento deludente dell'economia italiana da oltre due decenni è considerata una conseguenza della austerità impostaci dalle regole di finanza pubblica europee. Evidentemente l'accumulazione di debito pubblico non è ritenuta una evidenza che qualcosa nel "miracolo" non è veramente miracoloso. Al più si critica la riduzione degli investimenti pubblici a scapito della spesa corrente, salvo non spiegare cosa garantisca che non sarebbe così anche in futuro.
Tra gli alfieri di questa scuola di pensiero vi è Gustavo Piga, del quale non ho mai letto un articolo nel quale non si scagli contro l'austerità della politica di bilancio italiana.
Più investimenti e "una rivoluzione amministrativa" potrebbero fermare il declino italiano e proiettare la nazione verso un futuro prospero a suon di moltiplicatori di spesa pubblica.
Il punto percentuale in meno della media europea che caratterizza la crescita del Pil italiano negli anni 2020-2023, pari a circa 20 miliardi, "costituisce un mistero che merita di essere approfondito", secondo Piga.
Il quale, poi, si chiede: "Come è possibile che una performance relativa così negativa stia avvenendo quando al contempo riceviamo enormi stanziamenti dall'Ue per il tramite del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)?"
Forse occorre "chiedersi se ciò che ci ha frenato nei primi due decenni sia ancora una palla al piede di un Paese che non riesce in alcun modo a riprendere la sua corsa: e la risposta è un fragoroso sì, un doppio sì. Sì, l'austerità conosciuta nel decennio trascorso, e che così tanti danni ha causato al tessuto imprenditoriale e sociale del Paese lasciando ampie cicatrici, è ancora oggi – incredibilmente – con noi (malgrado il pesante contesto emergenziale dovuto a guerra, pandemia, inflazione da costi), fortemente radicata nel Pnrr. Lo conferma il suo famigerato art. 10, che condiziona l'erogazione dei fondi europei alla mannaia senza se e senza ma di una decisa e austera convergenza a un rapporto deficit-Pil del 3 per cento."
Ma "c'è anche un altro sì. Sì, la madre di tutte le riforme interne che il Paese attende da così tanto tempo, la rivoluzione organizzativa della Pubblica amministrazione (Pa) verso una spesa pubblica di qualità, è ancora al palo. Lo vediamo clamorosamente nei numeri del Pnrr e dei suoi investimenti previsti. A breve conosceremo quanti degli iniziali 43,3 miliardi che prevedevamo di spendere nel 2020-22 sono stati messi a terra; ed è probabile che siano addirittura inferiori a quei 20,5 che la Nadef di questo Governo ottimisticamente dichiarava solo pochi mesi fa, mettendo dunque ormai in dubbio anche che si possa rispettare l'altro traguardo dell'attuale cronoprogramma, quello che per il 2023 prevede una spesa di 40,9 miliardi. Come infatti pensare che un Paese come il nostro – la cui Pubblica amministrazione è svuotata di personale nelle sue piante organiche soprattutto in molte aree critiche del Paese, che non pensa a spendere per formare competenze, che è incapace di sottrarre personale motivato al settore privato per il tramite di offerte di lavoro congrue e all'altezza della sfida – possa farcela a spendere in tempo e bene?"
Conclusione: "Il circolo vizioso in cui siamo bloccati da quando è nato l'euro è tutto qui: non sappiamo spendere bene, di conseguenza l'Europa non ci permette di spendere quanto dovuto in fasi di emergenza, spendiamo sempre meno e sempre peggio, generando declino economico e conseguente instabilità nei conti pubblici. Europa e Italia, legate inesorabilmente in un comune destino, si trovano in un dilemma del prigioniero dove per perseguire il vantaggio di ognuno (austerità in salsa europea, nessuna vera spending review in Italia) perdono un esito complessivo favorevole a entrambi, finendo in un equilibrio di instabilità europea da un lato e stagnazione italica dall'altro."
Quindi avanti con "un salto di qualità, dove l'Italia finalmente porti a compimento una rivoluzione amministrativa fatta di assunzioni di qualità, investimenti pubblici in capitale umano, appalti pubblici dove autonomia delle scelte e performance di qualità delle nostre stazioni appaltanti generino fiducia in Italia e all'estero sul nostro Paese; e dove l'Europa, convinta di un credibile impegno italiano sulla qualità della spesa, accetti un patto di stabilità che consenta all'Italia di fare ancor più investimenti pubblici di quelli già consentiti dal Pnrr, portando sviluppo alla penisola e a quell'abbattimento del debito pubblico su Pil che renderebbe l'Europa tutta più forte a livello globale."
In pratica, rafforzamento del pubblico impiego, che dovrebbe diventare produttivo come se non meglio dei migliori esempi del settore privato.
Che si possa migliorare è indubbio, ma che si possa arrivare a una situazione in cui lo Stato e i suoi dipendenti fanno da volano per lo sviluppo dell'economia è alquanto improbabile, per la natura stessa della struttura di incentivi che caratterizza i due contesti e i rischi a essi associati.
Nel libro "Burocrazia" e in altri scritti, Ludwig von Mises ha spiegato chiaramente la differenza tra pubblico e privato. Anche la stessa persona è ragionevole supporre che agirebbe diversamente nei due contesti.
In sostanza, il miracolo non si potrebbe realizzare. Il tutto ancora prima di esprimere qualsivoglia considerazione sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci sempre promessa e mai realizzata.
L'Italia avrebbe certamente bisogno di una spending review, associata però a una sua riduzione. Pensare invece che lo Stato debba continuare a intermediare oltre la metà del Pil non può che peggiorare le cose perché il miracolo di avere una pubblica amministrazione di persone non solo oneste, ma perfino (semi)onniscienti è ancora meno realizzabile di quello della moltiplicazione della spesa pubblica.
Nessuna rivoluzione amministrativa potrebbe cambiare la realtà, se non incrementando ulteriormente la spesa.
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