Scorie - Il (cattivo) maestro è sempre stato tra noi

A 75 anni dalla morte di John Maynard Keynes (e a 85 anni dalla pubblicazione della sua Teoria Generale) non poteva mancare la pubblicazione di testi biografici (credo sarebbe più appropriato definirle agiografie) e non poteva mancare nemmeno la recensione di uno di tali testi sul domenicale del Sole 24 Ore.

A occuparsene è Mauro Campus, che inizia così la sua recensione a un libro di Zachary Carter sul "maestro":

"Pur essendo un feticcio del discorso pubblico a ogni latitudine, e come tale abusato da chi lo cita senza averne letto un rigo, John Maynard Keynes è uno degli intellettuali che hanno plasmato davvero il mondo contemporaneo. Tale rimane anche per chi ha negato l'efficacia della sua analisi e la radicalità delle sue ricette e ha, spesso vanamente, impiegato una vita per smontarne gli assunti."

Che molti siano keynesiani senza avere letto un rigo di ciò che Keynes ha scritto lo ritengo ampiamente probabile. Probabile che anche tra chi è avverso al keynesismo ci sia un buon numero di persone che non ha letto nulla di Keynes, ma solo testi di autori keynesiani, oppure direttamente testi scritti da autori critici nei confronti di Keynes.

Per quanto mi riguarda ho affrontato Keynes in questa sequenza: dapprima ho avuto professori keynesiani, che insegnavano macroeconomia da posizioni keynesiane e utilizzando manuali keynesiani; poi ho scoperto e approfondito per mio conto autori non keynesiani, tra i quali ho finito per trovare pienamente convincenti da un punto di vista di coerenza e logicità della teoria gli economisti di scuola Austriaca. Successivamente ho letto la Teoria Generale e altri lavori di KEynes, tra cui il tanto citato "Le conseguenze economiche della pace".

Quando Campus afferma che Keynes rimane un feticcio "anche per chi ha negato l'efficacia della sua analisi e la radicalità delle sue ricette e ha, spesso vanamente, impiegato una vita per smontarne gli assunti" posso condividere che sia stato uno sforzo vano se si considera che viviamo da circa 8 decenni in un mondo di interventismo keynesiano imperante, ancorché a diversi livelli di intensità nei diversi sottoperiodi; non credo, invece, che sia stato uno sforzo vano se Campus ritiene che nessuno sia stato in grado di smontare la Teoria Generale. 

Quella fu smontata già da autori suoi contemporanei e anche successivamente. Il fascino irresistibile del keynesismo, però, è che offre a chi governa una legittimazione (pseudo)scientifica per intervenire (ampliando il proprio raggio d'azione) allo scopo di "correggere" i presunti fallimenti del mercato, e agli economisti il ruolo di consiglieri ed esperti che affiancano i governanti con incarichi che conferiscono potere e laute remunerazioni.

Come la pensi Campus è abbastanza chiaro, quando scrive che "se il legame fra la General Theory e la Depressione è divenuto quasi di senso comune, soffermarsi sulle disastrose conseguenze politiche di ciò che la dottrina economica era prima di Keynes non è qui un esercizio retorico ed è anzi innestato nella traiettoria culturale sulla quale essa si snodò. Quell'analisi che smontava i dogmi e i difetti del laissez-faire era l'anticamera alla creazione di nuovi assetti istituzionali e di interventi diretti e discrezionali dello Stato, e sebbene fu necessario attendere perché venisse accolta, il New Deal prima e la guerra poi offrirono una versione efficace del suo funzionamento."

Che fosse lo stesso Keynes a ritenere che la sua "ricetta" fosse destinata a funzionare meglio in sistemi con governi "decisionisti" lo dimostra la prefazione che scrisse all'edizione tedesca della Teoria Generale, quando in Germania comandava Hitler.

Quanto ai "dogmi e i difetti del laissez-faire" e alle "disastrose conseguenze politiche" che Campus gli attribuisce, varrebbe la pena ricordare che l'istituzione della Federal Reserve e la conseguente cartellizzazione del sistema bancario a riserva frazionaria non furono opera del laissez-faire, che neppure ispirò la reazione di Hoover allo scoppio della bolla nel 1929, il cui interventismo fu antesignano del New Deal di Roosevelt.

Prima di quell'episodio non si erano mai verificate depressioni di così lunga durata. Quindi è condivisibile che, con riferimento al keynesismo, dal New Deal (e in realtà anche da prima) si sperimentò una "versione efficace del suo funzionamento". Sulla bontà dei risultati è legittimo avere dei dubbi.

Prosegue Campus:

"Gli anni estremi di Keynes coincidono con la fine della guerra e con il suo contributo alla costruzione della sicurezza economica definita all'alba del Secolo americano in quella Bretton Woods che pare oggi il paradiso perduto dove germogliarono i miracoli postbellici."

Che il secondo dopoguerra sia stato il trionfo del keynesismo, quanto a diffusione nel mondo accademico e politico, è indubbio. E' altrettanto indubbio, però, che appare quanto meno azzardato attribuire gli effetti di crescita economica conseguenti il periodo post bellico al keynesismo, mentre negli anni Settanta arrivarono al pettine molti nodi derivanti dall'applicazione pressoché incontrastata della dottrina keynesiana.

Curiosamente Campus non si occupa di quel periodo, passando oltre, segnalando che il libro di Carter "esamina con passo incisivo lo smantellamento della dottrina keynesiana ragionando sulle responsabilità di chi ha dato il contributo maggiore al suo discredito politico."

E di chi è stata la "colpa"?

"In maniera poco sorprendente eppure talora dimenticata, l'eclissi di quelle ricette si deve a chi gestì la transizione dalla fine della Guerra fredda alla neoliberale economia di pace. Per beffa del destino, fu il democratico Clinton a tirare la volata a quella infeconda terza via in cui si affollarono molti leader sbiaditamente socialdemocratici che imbracciarono il vessillo di una liberalizzazione forsennata."

Poco importa, evidentemente, che le amministrazioni americane e le autorità monetarie dell'epoca fossero dominate da keynesiani; tutte persone che Campus sembra accusare di deicidio.

Ma ecco che gli "anni più vicini e il susseguirsi di varie crisi che da sotterranee sono divenute palesi, si sono incaricati di far rientrare dalla porta principale le idee di colui da cui ci si era accomiatati per la porta di servizio, e così, con insistenza, oggi si invoca il "ritorno del Maestro" scomparso il giorno di Pasqua di 75 anni fa, e leggendo un libro accessibile e intelligente come questo se ne capiscono bene le ragioni."

Sembra che il mondo negli ultimi 2-3 decenni sia stato caratterizzato da assenza di interventismo keynesiano, ma chiunque abbia vissuto su questo pianeta e si interessi anche solo minimamente di vicende economiche dovrebbe attribuire queste affermazioni a un marziano. 

Nessun dubbio, peraltro, che a ogni crisi si sia rincarata la dose di keynesismo, ponendo le basi per la crisi successiva. Dal cattivo "maestro", ahimè, non ci si era affatto accomiatati. Semplicemente non si riesce a fare altro che a rincarare la dose della stessa ricetta sbagliata. Nonostante 80 anni di alti e bassi ricorrenti in cui l'unica cosa a non aver mai smesso di crescere è il debito figlio del keynesismo.


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