Scorie - La camera dei saperi
"Il dibattito sulla fine del bicameralismo perfetto così come l'abbiamo
conosciuto ha recentemente affrontato un tema legato alle riforme
istituzionali, quello del "Senato delle competenze": una camera ancora
rappresentativa, non snaturata del tutto nelle competenze, ma modificata
alla radice in quanto alla composizione, in grado di intercettare le
personalità più autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca,
dell'università, della cultura… Il Senato sarebbe, quindi, un organo
altamente specializzato, espressione autorevole di scienza e cultura, una
sorta di "camera dei saperi"."
(M. C. Carrozza)
Per un libertario che ritiene troppo grande anche lo Stato minimo, le
disquisizioni sulla fine del bicameralismo perfetto sono paragonabili alle
riflessioni sulla rinuncia di un caffè al giorno da parte di una persona
che pesa 200 chili e dice di voler dimagrire. Se il proposito è davvero
quello di dimagrire e, magari, spendere meno, si tratta di riflessioni
pressoché inutili.
Il ministro dell'Instruzione, Maria Chiara Carrozza, si è inserita nel
dibattito, commentando la proposta lanciata qualche tempo fa dall'inserto
culturale della domenica del Sole 24 Ore di trasformare il Senato in una
sorta di "camera dei saperi".
Un'idea non completamente originale, già discussa ai tempi dell'assemblea
costituente, come ricorda la stessa Carrozza, la quale, manco a dirlo, è
favorevole a una svolta "culturalista" per il Senato.
In sostanza si tratterebbe di riservare l'elezione a senatore alle
"personalità più autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca,
dell'università, della cultura"; un'ipotesi che probabilmente farebbe
felice Platone e tutti coloro che, nel corso dei secoli, hanno sposato
l'idea che il potere debba appartenere a delle elites.
Che gran parte dei cosiddetti intellettuali cerchi di ottenere di che
vivere (se possibile, agiatamente) utilizzando quelli che Oppenheimer
definiva "mezzi politici" anziché offrendo sul mercato ("mezzi economici")
i propri saperi non deve stupire; infatti è una costante della storia. Gli
intellettuali (definiamoli così) sono sempre stati funzionali al
rafforzamento dello Stato, così come uno Stato forte e in espansione ha
rappresentato un ottimo datore di lavoro per gli intellettuali. Al
contrario, gli intellettuali "non di corte" sono sempre stati una netta
minoranza, e generalmente hanno incontrato parecchi ostacoli sulla loro
strada, avendo vita tutt'altro che facile, per esempio, nel mondo
accademico.
Ora, io ritengo che una maggioranza (o una minoranza qualificata) non debba
avere il diritto di imporre, mediante la legislazione, il proprio volere a
tutti quanti, né credo che gli eletti abbiano conoscenze e competenze,
singolarmente o collettivamente, superiori a quelle di milioni di
cittadini. E fa poca differenza se gli eletti sono le "personalità più
autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca, dell'università, della
cultura" oppure no. Alla Camera e al Senato sono già oggi presenti diverse
persone che provengono da quegli ambiti, ma il loro comportamento poco si
distingue da quello degli altri parlamentari. Forse usano meglio il
congiuntivo. Non sempre, peraltro.
Per di più resterebbe da risolvere il problema di come eleggere queste
persone. Se si ritiene che i cittadini siano per lo più "incompetenti",
come possono costoro selezionare i "competenti"? Considerando che la scelta
di votare un partito/coalizione piuttosto che un altro/a dipende, almeno in
teoria, da quanto un elettore ritiene che quel partito/coalizione possa
tutelare al meglio i propri interessi (spesso identificati con il "bene
comune"), come può questo conciliarsi con la necessità di eleggere una
"camera dei saperi"?
Io credo che l'esperienza della nomina dei senatori a vita, peraltro scelti
dal presidente della Repubblica (quello che viene pomposamente definito
"rappresentante dell'unità nazionale" e si dice essere super partes),
dimostri come la scelta tenda a cadere su persone indubbiamente competenti,
ma mai con simpatie politiche opposte a quelle di chi decide le nomine.
Ritengo, quindi, che le idee politiche dei candidati finirebbero in ogni
caso per prevalere sui loro "saperi".
Molto meglio, quindi, evitare. La miglior fine del bicameralismo è
rappresentata dall'abolizione del Senato, non da una sua trasformazione. E
già resterebbero in troppi anche alla sola Camera dei deputati. Sapienti o
meno.
conosciuto ha recentemente affrontato un tema legato alle riforme
istituzionali, quello del "Senato delle competenze": una camera ancora
rappresentativa, non snaturata del tutto nelle competenze, ma modificata
alla radice in quanto alla composizione, in grado di intercettare le
personalità più autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca,
dell'università, della cultura… Il Senato sarebbe, quindi, un organo
altamente specializzato, espressione autorevole di scienza e cultura, una
sorta di "camera dei saperi"."
(M. C. Carrozza)
Per un libertario che ritiene troppo grande anche lo Stato minimo, le
disquisizioni sulla fine del bicameralismo perfetto sono paragonabili alle
riflessioni sulla rinuncia di un caffè al giorno da parte di una persona
che pesa 200 chili e dice di voler dimagrire. Se il proposito è davvero
quello di dimagrire e, magari, spendere meno, si tratta di riflessioni
pressoché inutili.
Il ministro dell'Instruzione, Maria Chiara Carrozza, si è inserita nel
dibattito, commentando la proposta lanciata qualche tempo fa dall'inserto
culturale della domenica del Sole 24 Ore di trasformare il Senato in una
sorta di "camera dei saperi".
Un'idea non completamente originale, già discussa ai tempi dell'assemblea
costituente, come ricorda la stessa Carrozza, la quale, manco a dirlo, è
favorevole a una svolta "culturalista" per il Senato.
In sostanza si tratterebbe di riservare l'elezione a senatore alle
"personalità più autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca,
dell'università, della cultura"; un'ipotesi che probabilmente farebbe
felice Platone e tutti coloro che, nel corso dei secoli, hanno sposato
l'idea che il potere debba appartenere a delle elites.
Che gran parte dei cosiddetti intellettuali cerchi di ottenere di che
vivere (se possibile, agiatamente) utilizzando quelli che Oppenheimer
definiva "mezzi politici" anziché offrendo sul mercato ("mezzi economici")
i propri saperi non deve stupire; infatti è una costante della storia. Gli
intellettuali (definiamoli così) sono sempre stati funzionali al
rafforzamento dello Stato, così come uno Stato forte e in espansione ha
rappresentato un ottimo datore di lavoro per gli intellettuali. Al
contrario, gli intellettuali "non di corte" sono sempre stati una netta
minoranza, e generalmente hanno incontrato parecchi ostacoli sulla loro
strada, avendo vita tutt'altro che facile, per esempio, nel mondo
accademico.
Ora, io ritengo che una maggioranza (o una minoranza qualificata) non debba
avere il diritto di imporre, mediante la legislazione, il proprio volere a
tutti quanti, né credo che gli eletti abbiano conoscenze e competenze,
singolarmente o collettivamente, superiori a quelle di milioni di
cittadini. E fa poca differenza se gli eletti sono le "personalità più
autorevoli nel mondo dell'istruzione, della ricerca, dell'università, della
cultura" oppure no. Alla Camera e al Senato sono già oggi presenti diverse
persone che provengono da quegli ambiti, ma il loro comportamento poco si
distingue da quello degli altri parlamentari. Forse usano meglio il
congiuntivo. Non sempre, peraltro.
Per di più resterebbe da risolvere il problema di come eleggere queste
persone. Se si ritiene che i cittadini siano per lo più "incompetenti",
come possono costoro selezionare i "competenti"? Considerando che la scelta
di votare un partito/coalizione piuttosto che un altro/a dipende, almeno in
teoria, da quanto un elettore ritiene che quel partito/coalizione possa
tutelare al meglio i propri interessi (spesso identificati con il "bene
comune"), come può questo conciliarsi con la necessità di eleggere una
"camera dei saperi"?
Io credo che l'esperienza della nomina dei senatori a vita, peraltro scelti
dal presidente della Repubblica (quello che viene pomposamente definito
"rappresentante dell'unità nazionale" e si dice essere super partes),
dimostri come la scelta tenda a cadere su persone indubbiamente competenti,
ma mai con simpatie politiche opposte a quelle di chi decide le nomine.
Ritengo, quindi, che le idee politiche dei candidati finirebbero in ogni
caso per prevalere sui loro "saperi".
Molto meglio, quindi, evitare. La miglior fine del bicameralismo è
rappresentata dall'abolizione del Senato, non da una sua trasformazione. E
già resterebbero in troppi anche alla sola Camera dei deputati. Sapienti o
meno.
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