Scorie - Conti in ordine, ma non oggi
"Il discorso del Presidente a Strasburgo contiene una riaffermazione ma
anche un cambiamento di rotta: l'austerità ha fatto il suo tempo, di troppa
austerità si muore… La domanda – una domanda che è in fondo rivolta alla
scienza economica – era questa: l'austerità potrebbe stimolare
l'economia?... Certamente, quanti come il Presidente oggi condannano
l'austerità fine a se stessa si preoccupano allo stesso tempo di
raccomandare conti in ordine, di non cercare lo stimolo in un disordinato
ritorno a una finanza pubblica allegra."
(F. Galimberti)
La scorsa settimana il presidente della Repubblica è stato al Parlamento
europeo, dove ha tenuto un discorso che in Italia è stato quasi
unanimemente osannato, ma che non conteneva nulla di originale e che, se
pronunciato da un socialista qualsiasi, con ogni probabilità non sarebbe
neppure stato notato.
E invece sono stati usati fiumi di inchiostro da parte del folto numero di
commentatori che applaudono ed esaltano qualsiasi cosa dica o faccia
Napolitano, senza se e senza ma. Sul fatto che la parola "austerità" sia
stata abusata negli ultimi anni ho già scritto in più occasioni: si è
spacciata una politica fiscale restrittiva fortemente sbilanciata su
aumenti di entrate come se fosse una politica austera, quando una vera
austerità consisterebbe in una vigorosa riduzione di spesa pubblica e
dell'invadenza dello Stato.
Mentre una riduzione di spesa, dopo una iniziale contrazione del Pil (per
il semplice fatto che, ancorché il concetto sia discutibile, ogni euro di
spesa pubblica è considerato pari a un euro di maggiore Pil), può, se
accompagnata da una riduzione della pressione fiscale, favorire una ripresa
economica grazie alla maggior quantità di risorse lasciate dallo Stato a
chi le ha legittimamente generate, un incremento di tasse a spesa pubblica
invariata o addirittura in aumento non può che strozzare l'economia, a
maggior ragione quando si parte da livelli di pressione fiscale già
elevati.
Detto, quindi, che non tutte le politiche di aggiustamento dei conti
pubblici sono qualitativamente uguali, veniamo all'invocazione
presidenziale: meno "austerità", ma senza "un disordinato ritorno a una
finanza pubblica allegra". I keynesiani moderati lo sostengono da sempre:
un po' più di deficit oggi, ma con l'impegno a un consolidamento nel medio
lungo periodo. Se non fosse che ogni forma di interventismo introduce
distorsioni nella domanda e nell'offerta che ritengo sia meglio evitare, si
potrebbe concedere a qualche keynesiano anche di essere in buona fede. Il
problema è che gli interventi sono fatti da politici, per i quali il lungo
periodo non è neppure la prossima scadenza elettorale, bensì il sondaggio
del giorno dopo. Ne consegue che l'aumento, ancorché moderato, del deficit,
anche al netto delle distorsioni a cui ho fatto cenno, ben difficilmente
sarà temporaneo, senza un intervento esogeno a imporre una correzione (si
chiami spread o troika, poco importa). Da questo punto di vista aveva
ragione Milton Friedman quando sosteneva che "nulla così permanente come un
programma provvisorio del governo".
Infatti, quando l'economia arranca il deficit viene giustificato per
rilanciarla, mentre quando sembra essersi ripresa, non pare giusto "tarpare
le ali" alla crescita riducendo il deficit. In sostanza, il momento per
tirare la cinghia non arriva mai volontariamente. Eppure basta un semplice
ragionamento: perché una persona che spende ogni anno più del reddito
prodotto è destinata alla rovina in tempi brevi mentre non dovrebbe esserlo
uno Stato?
I fautori della tesi secondo cui "un po' di deficit non è un problema"
sostengono che lo Stato sia diverso da una persona e in parte sicuramente
ciò è vero, non fosse altro per il fatto che nessun privato può estorcere
denaro ad altri senza essere considerato un criminale e per questo essere
perseguito. Ciò non toglie che accumulare deficit conduce a un forte
aumento del debito (e in Italia ne sappiamo qualcosa) e che l'idea di
monetizzarlo conduce prima o poi a una perdita di fiducia nella moneta e
nel forte calo del suo potere d'acquisto.
Non esistono, quindi, formule magiche: la ricchezza non si crea dal nulla,
né può essere creata dallo Stato, la cui attività è al più di redistribuire
la ricchezza esistente (sprecandone non poca). Resterebbe, infine, una
domanda da porre a Napolitano e ai suoi adulatori: se il limite del 3 per
cento del Pil non è sufficiente, lo sarebbe il 4 o il 5 per cento? Cosa
impedirebbe, una volta raggiunto il nuovo limite, di invocare un ulteriore
sforamento per fare ancor più "bene" all'economia?
anche un cambiamento di rotta: l'austerità ha fatto il suo tempo, di troppa
austerità si muore… La domanda – una domanda che è in fondo rivolta alla
scienza economica – era questa: l'austerità potrebbe stimolare
l'economia?... Certamente, quanti come il Presidente oggi condannano
l'austerità fine a se stessa si preoccupano allo stesso tempo di
raccomandare conti in ordine, di non cercare lo stimolo in un disordinato
ritorno a una finanza pubblica allegra."
(F. Galimberti)
La scorsa settimana il presidente della Repubblica è stato al Parlamento
europeo, dove ha tenuto un discorso che in Italia è stato quasi
unanimemente osannato, ma che non conteneva nulla di originale e che, se
pronunciato da un socialista qualsiasi, con ogni probabilità non sarebbe
neppure stato notato.
E invece sono stati usati fiumi di inchiostro da parte del folto numero di
commentatori che applaudono ed esaltano qualsiasi cosa dica o faccia
Napolitano, senza se e senza ma. Sul fatto che la parola "austerità" sia
stata abusata negli ultimi anni ho già scritto in più occasioni: si è
spacciata una politica fiscale restrittiva fortemente sbilanciata su
aumenti di entrate come se fosse una politica austera, quando una vera
austerità consisterebbe in una vigorosa riduzione di spesa pubblica e
dell'invadenza dello Stato.
Mentre una riduzione di spesa, dopo una iniziale contrazione del Pil (per
il semplice fatto che, ancorché il concetto sia discutibile, ogni euro di
spesa pubblica è considerato pari a un euro di maggiore Pil), può, se
accompagnata da una riduzione della pressione fiscale, favorire una ripresa
economica grazie alla maggior quantità di risorse lasciate dallo Stato a
chi le ha legittimamente generate, un incremento di tasse a spesa pubblica
invariata o addirittura in aumento non può che strozzare l'economia, a
maggior ragione quando si parte da livelli di pressione fiscale già
elevati.
Detto, quindi, che non tutte le politiche di aggiustamento dei conti
pubblici sono qualitativamente uguali, veniamo all'invocazione
presidenziale: meno "austerità", ma senza "un disordinato ritorno a una
finanza pubblica allegra". I keynesiani moderati lo sostengono da sempre:
un po' più di deficit oggi, ma con l'impegno a un consolidamento nel medio
lungo periodo. Se non fosse che ogni forma di interventismo introduce
distorsioni nella domanda e nell'offerta che ritengo sia meglio evitare, si
potrebbe concedere a qualche keynesiano anche di essere in buona fede. Il
problema è che gli interventi sono fatti da politici, per i quali il lungo
periodo non è neppure la prossima scadenza elettorale, bensì il sondaggio
del giorno dopo. Ne consegue che l'aumento, ancorché moderato, del deficit,
anche al netto delle distorsioni a cui ho fatto cenno, ben difficilmente
sarà temporaneo, senza un intervento esogeno a imporre una correzione (si
chiami spread o troika, poco importa). Da questo punto di vista aveva
ragione Milton Friedman quando sosteneva che "nulla così permanente come un
programma provvisorio del governo".
Infatti, quando l'economia arranca il deficit viene giustificato per
rilanciarla, mentre quando sembra essersi ripresa, non pare giusto "tarpare
le ali" alla crescita riducendo il deficit. In sostanza, il momento per
tirare la cinghia non arriva mai volontariamente. Eppure basta un semplice
ragionamento: perché una persona che spende ogni anno più del reddito
prodotto è destinata alla rovina in tempi brevi mentre non dovrebbe esserlo
uno Stato?
I fautori della tesi secondo cui "un po' di deficit non è un problema"
sostengono che lo Stato sia diverso da una persona e in parte sicuramente
ciò è vero, non fosse altro per il fatto che nessun privato può estorcere
denaro ad altri senza essere considerato un criminale e per questo essere
perseguito. Ciò non toglie che accumulare deficit conduce a un forte
aumento del debito (e in Italia ne sappiamo qualcosa) e che l'idea di
monetizzarlo conduce prima o poi a una perdita di fiducia nella moneta e
nel forte calo del suo potere d'acquisto.
Non esistono, quindi, formule magiche: la ricchezza non si crea dal nulla,
né può essere creata dallo Stato, la cui attività è al più di redistribuire
la ricchezza esistente (sprecandone non poca). Resterebbe, infine, una
domanda da porre a Napolitano e ai suoi adulatori: se il limite del 3 per
cento del Pil non è sufficiente, lo sarebbe il 4 o il 5 per cento? Cosa
impedirebbe, una volta raggiunto il nuovo limite, di invocare un ulteriore
sforamento per fare ancor più "bene" all'economia?
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