Scorie - Fare i buoni con le tasse degli altri
"Se l'obiettivo è la crescita economica, è inaccettabile che un Paese tassi
al 20% le rendite finanziarie, mentre il lavoro è tassato al 45% e le
imprese al 60%. E' urgente riequilibrare il peso del fisco a favore delle
attività produttive."
(D. Serra)
Davide Serra, già analista finanziario per Morgan Stanley e da qualche anno
fondatore e gestore dell'hedge fund Algebris, è uno dei sostenitori della
prima ora di Matteo Renzi. Ai tempi delle precedenti primarie i bersaniani
rinfacciarono a Renzi la frequentazione di soggetti che erano fiscalmente
domiciliati alle isole Cayman: un tic tipicamente tardocomunista che è
rimasto in buona parte degli esponenti del PD di provenienza PCI-PDS-DS (e
probabilmente anche nella loro base elettorale).
Serra effettivamente non ha scelto l'Italia come domicilio fiscale per la
sua attività e i suoi fondi, bensì legislazioni meno ostili, come quelle
caymana, irlandese o inglese, ancorché si giustifichi citando la maggior
flessibilità dei quei sistemi legali. Cosa indubbiamente vera (e ci vuole
poco se il termine di paragone è l'Italia), ma anche il fisco ha il suo
peso in decisioni del genere, e negarlo o sminuirlo a me pare ipocrita.
A maggior ragione quando si va sostenendo, come fa Serra da tempo (e come
fa anche Renzi), che in Italia andrebbero diminuite le tasse su lavoro e
imprese, aumentando le randellate alle "rendite finanziarie", la cui
aliquota si ferma (per ora) al 20%.
Serra farebbe bene a ricordare che fino al 2011 l'aliquota era il 12.5% e
che, oltre a un aumento di 7.5 punti (titoli di Stato esclusi, tanto per
non creare distorsioni nelle allocazioni dei risparmi!), la vera mazzata è
arrivata con la riformulazione dell'imposta di bollo sui prodotti
finanziari, che è passata da 34.20 euro fissi annui a un'aliquota
proporzionale aumentata dal 2012 a oggi dallo 0.10 allo 0.20 per cento.
Dalle altre parti queste imposte sono definite patrimoniali, ma da noi è
tabù dire la verità, quindi si continua a chiamarla imposta di bollo.
Immagino già i tassatori di professione insorgere, sostenendo che altrove
le aliquote sono comunque più elevate. In alcuni casi è vero, ma trovare
posti dove il tax rate complessivo superi quello italiano non è facile. E
andrebbe anche ricordato che il patrimonio è formato dall'accumulazione di
redditi non consumati e, generalmente, già tassati quando sono stati
prodotti.
In ogni caso, dato che Serra dice di parlare da "investitore",
probabilmente avrebbe avuto più senso un ragionamento come questo: è
inaccettabile che in Italia la spesa pubblica rappresenti oltre la metà del
Pil, se l'obiettivo è la crescita economica la spesa deve essere fortemente
ridotta per diminuire il peso del fisco che opprime le attività produttive.
Infatti, supporre che la soluzione risieda nel diminuire alcune tasse
aumentandone altre è, a voler essere benevoli, illusorio. Ma forse
l'obiettivo di Serra non è la crescita economica, bensì piacere anche
all'ala sinistra del PD.
al 20% le rendite finanziarie, mentre il lavoro è tassato al 45% e le
imprese al 60%. E' urgente riequilibrare il peso del fisco a favore delle
attività produttive."
(D. Serra)
Davide Serra, già analista finanziario per Morgan Stanley e da qualche anno
fondatore e gestore dell'hedge fund Algebris, è uno dei sostenitori della
prima ora di Matteo Renzi. Ai tempi delle precedenti primarie i bersaniani
rinfacciarono a Renzi la frequentazione di soggetti che erano fiscalmente
domiciliati alle isole Cayman: un tic tipicamente tardocomunista che è
rimasto in buona parte degli esponenti del PD di provenienza PCI-PDS-DS (e
probabilmente anche nella loro base elettorale).
Serra effettivamente non ha scelto l'Italia come domicilio fiscale per la
sua attività e i suoi fondi, bensì legislazioni meno ostili, come quelle
caymana, irlandese o inglese, ancorché si giustifichi citando la maggior
flessibilità dei quei sistemi legali. Cosa indubbiamente vera (e ci vuole
poco se il termine di paragone è l'Italia), ma anche il fisco ha il suo
peso in decisioni del genere, e negarlo o sminuirlo a me pare ipocrita.
A maggior ragione quando si va sostenendo, come fa Serra da tempo (e come
fa anche Renzi), che in Italia andrebbero diminuite le tasse su lavoro e
imprese, aumentando le randellate alle "rendite finanziarie", la cui
aliquota si ferma (per ora) al 20%.
Serra farebbe bene a ricordare che fino al 2011 l'aliquota era il 12.5% e
che, oltre a un aumento di 7.5 punti (titoli di Stato esclusi, tanto per
non creare distorsioni nelle allocazioni dei risparmi!), la vera mazzata è
arrivata con la riformulazione dell'imposta di bollo sui prodotti
finanziari, che è passata da 34.20 euro fissi annui a un'aliquota
proporzionale aumentata dal 2012 a oggi dallo 0.10 allo 0.20 per cento.
Dalle altre parti queste imposte sono definite patrimoniali, ma da noi è
tabù dire la verità, quindi si continua a chiamarla imposta di bollo.
Immagino già i tassatori di professione insorgere, sostenendo che altrove
le aliquote sono comunque più elevate. In alcuni casi è vero, ma trovare
posti dove il tax rate complessivo superi quello italiano non è facile. E
andrebbe anche ricordato che il patrimonio è formato dall'accumulazione di
redditi non consumati e, generalmente, già tassati quando sono stati
prodotti.
In ogni caso, dato che Serra dice di parlare da "investitore",
probabilmente avrebbe avuto più senso un ragionamento come questo: è
inaccettabile che in Italia la spesa pubblica rappresenti oltre la metà del
Pil, se l'obiettivo è la crescita economica la spesa deve essere fortemente
ridotta per diminuire il peso del fisco che opprime le attività produttive.
Infatti, supporre che la soluzione risieda nel diminuire alcune tasse
aumentandone altre è, a voler essere benevoli, illusorio. Ma forse
l'obiettivo di Serra non è la crescita economica, bensì piacere anche
all'ala sinistra del PD.
Commenti
Posta un commento