Scorie - Italia modello per la Cina? Non sarebbe un vanto


Gli anni Ottanta del secolo scorso furono per l'Italia la fase culminante degli eccessi di statalismo spendaccione che aveva preso progresivamente velocità nel decennio precedente. Come (tristemente) noto, i nodi giunsero al pettine a inizio anni Novanta, anche se buona parte del Paese non volle mai accettare la realtà e continua ancora oggi a credere nell'illusione di poter trovare nel deficit la via alla prosperità, eventualmente confidando che a pagare il conto saranno sempre altri.

Capita perfino di imbattersi in ravalutazioni del modello di economia mista e delle partecipazioni statali, che inece appesantirono e non poco il debit pubblico, accumulando perdite miliardarie anche se operando in condizioni spesso al ruiparo dalla concorrenza.

Lo fa, per esempio Guido Slerno Aletta, che ricorda come quarant'anni fa il modello di economia mista avesse portato l'Italia a grandi risultati.

"Il sistema delle partecipazioni statli si era affermato come modello vincente di economia mista: il finanziamento delle imprese era assicurato dal bilancio dello Stato che annualmente rimpinguava i fondi di dotazione degli Enti di gestione, vere e proprie finanziarie, con apporti di nuovo capitale di rischio. Il debito pubblico assorbiva così il risparmio privato trasformandolo in capitale produttivo, lasciando alle aziende di credito la gestione dei prestiti commerciali erogati alle Partecipazioni Statali, le cui emissioni obbligazionarie erano comunque coperte dalla piena garanzia dello Stato: nel 1984, il valore capitalizzato ai tassi correnti del totale dei conferimenti azionari versati alle PP.SS. a partire dal 1930 ammontava a 109mila miliardi di lire, pari al 20% del debito pubblico di 563mila miliardi."

Ho sempre trovato interessante il fatto che, tranne una piccola minoranza, dopo la cadura del regime tutto il sistema politico ed economico italiano si sia sempre dichiarato antifascista, considerando la costituzione (antifascista) una sorta di testo sacro, pur conservando, in buona sostanza, un approccio all'economia tipicamente fascista. Non a caso le norme fondamentali e le istituzioni principali nate negli anni Trenta sono sopravvissute per decenni, e alcune sono ancora vive e vegete.

Ciò detto, lo Stato rimpinguava ogni anno i fondi di dotazione perché i bilanci di buona parte delle partecipate registravano perdite che necessitavano di aumenti di capitale. Che evidentemente tanto "produttivo" non era, altrimenti i risultati delle partecipate avrebbero contribuito a ridurre il debito pubblico, non ad aumentarlo. Questa è semplice aritmetica, a prescindere da cosa uno pensi dello Stato imprenditore.

Ma per Salerno Aletta il quello italiano è stato un modello per altri, se è vero che "negli scorsi vent'anni il sistema cinese non si è ispirato affatto al modello americano basato sulla finanziarizzazione dell'economia, ma si è sviluppato vorticosamente imitando pedissequamente il modello italiano del dopoguerra, che era cresciuto in modo altrettando sbalorditivo basandosi sull'economia mista, enfatizzando però a dismmisura il ruolo delle banche pubbliche nel finanziamento delle imprese sia pubbliche che private in luogo del bilancio statale."

In effetti il modello cinese è una economia di comando tipica dei regimi autoritari, in cui lo Stato controlla tutto e tutto decide, compreso quanta libertà di iniziativa lasciare ai privati e in quali settori. Ma anche in Cina il debito, ancorché in banche e veicoli pubblici e non direttamente nel bilancio dello Stato, è cresciuto a dismisura e i nodi stanno iniziando ad arrivare al pettine. Come nel settore immobiliare, per esempio.

In definitiva, i postumi dell'epoca delle partecipazioni statali sono ancora dolorosamente a carico dei pagatori di tasse, e non so quanto ci sia da andare fieri di essere il modello del regime cinese.


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