Scorie - Nelle aggregazioni i vantaggi non sono per tutti

Esiste nel mondo accademico una corrente di pensiero (credo maggioritaria), che ritiene da anni indispensabile un maggiore consolidamento nel settore bancario. Alle voci dei professori potrei aggiungere quella dei consulenti, i quali, però, quando sentono l'odore delle commissioni legate alle operazioni straordinarie come l'm&a sono come gli squali quando vedono il sangue: li guida l'istinto, e non è detto che sia un bene per tutti.

Pendiamo dunque un articolo sul Corriere della Sera di Stefano Caselli, pro rettore della Bocconi nonché professore di Economia degli intermediari finanziari, che dando i suoi due cents a favore dell'offerta pubblica di scambio (con aggiunta di cash) di Banca Intesa Sanpaolo su UBI, ricorda i generali motivi che richiederebbero un maggiore consolidamento.

"Se la sfida per le banche italiane è stata quella della capitalizzazione, oggi occorre chiedersi come possano dare un supporto decisivo all'economia reale. Purtroppo il sistema bancario europeo è troppo frammentato. Basta solo un dato: le prime tre banche americane per totale attivi rappresentano il 30% del mercato, mentre in Europa raggiungono solo il 14%. Questo significa che il nostro sistema è meno capace di affrontare le sfide che il mercato impone: sostegno alle imprese nella competizione globale, attrazione dei migliori talenti, investimenti in tecnologia e innovazione, grandi eventi imprevisti come Covid-19, costo del funding. Per queste ragioni, un consolidamento senza precedenti è necessario."

A mio parere il confronto tra Stati Uniti e Unione europea è un po' tirato, dato che dall'altra parte dell'Atlantico il mercato del credito è unico, mentre nell'Unione europea o nella più ristretta Area dell'euro, i mercati del credito restano di fatto frammentati a livello statale. E questo a maggior ragione dopo il 2008, nonostante un set regolamentare unitario.

Per di più l'attività di intermediazione creditizia in presenza di tassi di interesse negativi risulta avere una redditività al netto dei rischi decisamente infima, a maggior ragione se si richiede alle banche di avere meno leva (cosa peraltro corretta).

Margini unitari risicati rappresentano di per sé una spinta alla crescita dimensionale, per sfruttare il più possibile economie di scala, a maggior ragione quando servono ingenti investimenti per la digitalizzazione dei processi. Questo mi sembra l'argomento principale usato dai fautori del consolidamento, i quali, però, a mio parere danno meno rilevanza del necessario ad altri aspetti.

Scrive, per esempio, Caselli:

"La riduzione degli organici è un dato che si sviluppa ormai a prescindere dai processi di aggregazione e non deve essere utilizzato come pretesto per frenarle. Al contrario, un soggetto più grande, capace di dimostrare perché un'aggregazione sia meglio di singole banche sparse nel mercato, diventa un centro di propulsione per investimenti e attrazione di nuovo capitale umano. Ma soprattutto permette di creare economia di scala e di competenza che portano a servizi di maggiore qualità per la clientela e a costi più contenuti."

Non so se migliori sempre la qualità dei servizi per la clientela, e in generale dubito che ciò avvenga a costi più contenuti se si riduce il numero di operatori. Perché se si segue la logica del ragionamento, si arriva o al monopolio, o a un oligopolio, per di più in un settore molto regolamentato, in cui le barriere all'entrata ci sono e non sono banali.

Pare non pensarla così Caselli:

"Quali i vantaggi? Se guardiamo alla clientela, maggiore dimensione significa più capacità di investire in capitale umano e tecnologia per produrre innovazione, possibilità di contare di più nel mercato internazionale - soprattutto nel capital market e dell'asset management – per ulteriore crescita, creare efficienza su costi e raccolta."

Questo potrebbe essere vero se la crescita dimensionale fosse cross-border, ma mi sembra un argomento un po' debole se riferito all'operazione in questione. Aumenteranno certamente le masse combinate, ma a parte una qualche efficienza sui costi, il resto mi sembra meno verosimile.

Continua Caselli:

"Tutti questi elementi sono oggi indispensabili per dare più qualità ai prodotti che imprese e risparmiatori comprano, oltre che per creare i presupposti di una maggiore convenienza. Pensando all'eccellenza delle nostre pmi servite dalle due banche, potrebbe essere un'occasione di accesso più ampio a servizi di finanza d'impresa, oggi decisivi per il rilancio in una fase di crisi economica." 

Non ho notato un gran miglioramento nei prodotti e servizi a seguito delle precedenti ondate di concentrazione, e in generale fatico a comprendere come la riduzione del numero di operatori – lo ripeto, in un contesto molto regolamentato – possa favorire tale tendenza.

Per gli attuali azionisti UBI aderire all'offerta ha senso dal punto di vista finanziario, ma per tutti gli altri stakeholders (parola di cui è di gran moda riempirsi la bocca) non vedo grandi miglioramenti all'orizzonte. Per lo meno non così scontati.

Secondo Caselli:

"Nel contesto europeo per il paese significherebbe anche dare un segnale sulla capacità del sistema bancario italiano di fare un salto di livello, di aprire una stagione di aggregazioni che porti redditività per competere su scala internazionale. Senza perdere di vista il fatto che la concorrenza resta un criterio-guida per la tutela dei clienti. E dunque tra le responsabilità, in caso di vittoria, ci sarà anche quella che le ragioni del mercato vengano garantite."

Ora, non vorrei scomodare Adam Smith, ma pensare che un soggetto che cresce per linee esterne lo faccia avendo come preoccupazione quella di aumentare (o per lo meno non ridurre) la concorrenza, mi pare davvero eccessivo. 

Resta, poi, un problema di sistema. Più aumentano le dimensioni delle singole banche, più diventa "impossibile" farle fallire, per via delle implicazioni sistemiche. Tuttavia, se tali dimensioni diventano eccessive, diventa impossibile anche salvarle in caso di crisi.

Anche questo andrebbe tenuto in considerazione.

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