Scorie - Anche la DE&I è figlia del QE?

Negli ultimi anni, tra i tanti acronimi imposti dalla religione del politicamente corretto, vi sono ESG, che sta per Enviromental, Social, Governance e DE&I, che sta per Diversity, Equity and Inclusion. DE&I può essere visto come un sottoinsieme della "S".

Sull'ESG ho già scritto in passato. Per n certo periodo era presentato come un mondo in cui gli investitori (e anche le imprese) avrebbero ottenuto la botte piena e la moglie ubriaca, ossia attività attente all'ambiente, all'interesse di tutti i portatori di interessi e anche governate secondo i dettami politicamente corretti, ottenendo anche palate di utili (le imprese) e dividenti e/o rivalutazioni delle azioni (gli investitori).

Poi è emerso, strada facendo, che qualche trade-off esiste e che spesso sono le imprese che già vanno bene, magari godendo anche di posizioni dominanti sui rispettivi mercati, che possono permettersi di essere campioni ESG, e non il contrario. 

Soprattutto, è emerso che buona parte degli investitori non sono disponibili a ottenere rendimenti inferiori rispetto a investimenti non ESG. E questo mi pare un punto non trascurabile, ancorché ammesso a denti stretti dagli entusiasti (non sempre disinteressati) dell'ESG.

Qualcuno ha anche osservato, e mi pare uno spunto interessante, che la religione ESG sia figlia del lungo periodo di tassi di interesse artificialmente bassi. In sostanza, una bolla. Si vedrà. Importante sarebbe non torturare i dati per far dire loro cose non vere.

Quanto alla DE&I, non esiste ormai azienda di dimensioni medio-grandi che non abbia politiche e strutture dedicate. Il tutto, però, si sostanzia spesso con l'inclusione selettiva, ossia quella politicamente corretta. 

Anche in questo caso, è interessante notare come a stabilire ciò che va bene e non va bene, incluso in termini di risultati economici, siano ricerche condotte da organizzazioni che fanno della DE&I la loro ragione di esistere.

E quindi ecco affermazioni su cui credo sia legittimo avere dubbi, del tipo "oggi esprimere una posizione fa la differenza perché il mercato penalizza la neutralità".

Secondo Francesca Vecchioni, Presidente di Fondazione Diversity, le "aziende che vogliono davvero innovare e crescere possono farlo oggi solo cambiando approccio alla DE&I, elemento imprescindibile per il mercato. Per pensare e costruire idee nuove, migliori delle precedenti, autentiche e lontane dal rischio di diversity washing servono la maturità e la consapevolezza di fare tabula rasa, ripartendo dal principio per un nuovo inizio, con l'obiettivo di arrivare a un'inclusione reale e concreta, aperta a tutte le categorie."

Non vorrei offendere nessuno, ma mi pare una affermazione a elevato tasso di supercazzola. In primo luogo, perché la DE&I prevede in realtà un grande conformismo di ciò che realmente è incluso. Ben inteso, a mio parere ogni impresa ha il diritto di includere ed escludere ciò che vuole, finché rispetta i contratti stipulati e il principio di non aggressione.

Ma credo che i risultati di certi sondaggi siano frutto anche di come sono poste le domande. Come nel caso del più corposo ESG, quel che conta sono alla fin fine le preferenze rivelate da consumatori e investitori. Probabilmente non è così vero che costoro in gran maggioranza diano più importanza e ESG e DE&I rispetto alla qualità/convenienza del prodotto e al ritorno finanziario dell'investimento.

E forse non è casuale che le imprese che hanno bisogno di ridurre i costi per sopravvivere, magari perché non beneficiano più di tassi di interesse artificialmente compressi, ridimensionino le strutture che si occupano di queste faccende.

Perché, in ultima analisi, se un'impresa non riesce a reggersi sulle proprie gambe in termini economico-finanziari, l'unico esito finisce per essere quello di avere dipendenti disoccupati. E difficilemnte costoro sarebbero contenti di esserlo perché la loro azienda era un campione di DE&I.


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