Scorie - Transizioni irrealistiche e senza senso

Nel dibattito su come affrontare il cambiamento climatico, spesso ci si imbatte in posizioni di chi vorrebbe tutto e subito. A parte il fatto che, come spesso accade, viene definito "giusto" o "equo" ciò che il sostenitore del tutto e subito ritiene essere tale, i metodi per arrivare al risultato comporterebbero inevitabilmente forti compressioni della libertà individuale. Per di più, si tratta spesso di un approccio totalmente irrealistico.

Si prenda, per esempio, la posizione di Serena Giacomin, presidente dell'Italian Climate Network. La quale esordisce con questa affermazione:

"L'umanità ha bisogno di un'economia sostenibile."

Che, di per sé, è autoevidente e, credo, condivisa pressoché all'unanimità. Ma come arrivare all'obiettivo? Qui sorgono le (mie) perplessità.

Giacomin ricorda che "dall'Accordo di Parigi del 2015 si è rafforzata l'importanza della transizione equa nei dibattiti internazionali sul clima, sottolineando la necessità di affrontare le preoccupazioni sociali e occupazionali durante il passaggio a un'economia a basse emissioni di carbonio."

Afferma poi che la "transizione giusta è un principio guida importante: le politiche di mitigazione del riscaldamento globale devono essere tali da non causare danni sociali o economici, ma dovrebbero invece cercare di minimizzare gli impatti negativi su comunità, lavoratori e settori industriali vulnerabili."

Bene, ma cosa fare in concreto, e come?

"La giusta transizione si concentra, quindi, sulla creazione di nuove opportunità occupazionali, sulla formazione dei lavoratori per nuove competenze e sulla costruzione di un futuro sostenibile che tenga conto delle preoccupazioni sociali ed economiche. Questo concetto è diventato sempre più importante - ad esempio - nelle discussioni sulle politiche energetiche nazionali, evidenziando l'importanza di bilanciare gli obiettivi ambientali con quelli sociali per garantire una transizione equa, ma allo stesso tempo efficace."

Il problema è che le nuove opportunità occupazionali non si creano per legge. Per legge, semmai, le si ostacolano. Un esempio lampante è la fissazione non solo di obiettivi, ma anche delle modalità per raggiungerli, che limitano la possibilità delle imprese di sviluppare soluzioni innovative. 

Né (ri)formare lavoratori, magari ultracinquantenni, è un affare semplice come scriverlo. Il che rende altamente probabile che i posti di lavoro soppressi per via della transizione forzata saranno sostititi da sussidi più o meno cospicui ed estesi nel tempo a carico dei pagatori di tasse. Ma i limiti "fiscali" di queste transizioni non sembrano esistere per i fautori dei tutto e subito.

Quanto al realismo, si arriva poi ad affermazioni del tipo che i combustibili fossili "devono essere immediatamente sostituiti da fonti di energia più pulite e sostenibili."

Nell'avverbio "immediatmante" si riscontra tutta la mancanza di connessione con la realtà dell'affermazione. Non occorre essere un esperto della materia per rendersi conto che, anche volendo, ciò sarebbe impossibile. Non solo "immediatamente", ma per decenni.

Ma andiamo avanti.

"Per attuare con successo una transizione equa è essenziale seguire alcuni principi chiave: in primo luogo creare nuove opportunità di lavoro nelle industrie a basse emissioni di carbonio. Questo può includere investimenti in energie rinnovabili, efficienza energetica, trasporti sostenibili e altre tecnologie verdi."

Bene: gli investimenti sono posti in essere se l'investitore li ritiene profittevoli. In caso contrario, servono i soldi dei pagatori di tasse, ma a quel punto è semanticamente sbagliato definirli investimenti.

Ma non è finita qui:

"In secondo luogo occorre proteggere i lavoratori che a causa della chiusura di industrie ad alto impatto ambientale dovrebbero ricevere supporto nella ricerca di nuove opportunità di impiego. Questo può includere formazione professionale, assistenza nella ricerca di lavoro e sussidi di disoccupazione. Bisogna poi coinvolgere le comunità nel processo decisionale e nel pianificare il loro futuro. Ciò implica il riconoscimento delle sfide e delle opportunità specifiche di ogni comunità e la creazione di piani su misura per ciascuna di esse. E promuovere la giustizia sociale riducendo le disuguaglianze e garantendo che i benefici della transizione siano distribuiti in modo equo, con politiche di inclusione sociale, accesso a servizi pubblici e altre iniziative per ridurre le disparità economiche."

Pur prescindendo da valutazioni di merito sulle cose proposte, manca sempre, in questi casi, un'indicazione, seppur vaga, dei costi e di come reperire le fonti di finanziamento. Implicito sembra essere l'assunto che i soldi degli altri, contrariamente a quanto (constatando la realtà) osservava Margaret Thatcher, non finiscano mai.

Su una cosa sono d'accordo con Giacomin:

"Affrontare il cambiamento climatico senza considerare gli impatti sociali ed economici sulla popolazione e sulle comunità sarebbe quantomeno insensato."

Anche proporre soluzioni irrealistiche e tutte basate sul presupposto che ci sia sempre qualcuno che può pagare qualsiasi cifra mi pare insensato.


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