Scorie - Reversibilità a carico di sempre meno animali da soma
Tra le tante cose dette e scritte in questi giorni a proposito di pensioni di reversibilità, l'unica che, a mio parere, avrebbe senso non mi è capitato né di leggerla, né di sentirla. Prendo spunto da un articolo di Enrico Marro sul Corriere della Sera, che inquadra la questione, ma si limita a sostenere i meriti della sostituzione dell'Isee al reddito Irpef per determinare il diritto alla percezione dell'assegno di reversibilità.
Scrive Marro:
"Le pensioni di reversibilità rappresentano un pezzo fondamentale dello Stato sociale per circa 4,3 milioni di «superstiti»: in buona parte vedove, che percepiscono per tutta la loro restante vita, in base al reddito, dal 30 al 60% di quella che era la pensione del marito deceduto. Per questa voce si spendono circa 41 miliardi di euro l'anno (che fanno 733 euro in media a testa per tredici mensilità). È vero, in un caso su tre l'assegno di reversibilità costituisce l'unica forma di reddito (il 67,5% dei percettori la cumula invece con altre pensioni), o comunque la principale, che si somma alla casa di abitazione lasciata in eredità dal coniuge. Ma è anche vero che, essendo legata all'imponibile Irpef del percettore, la reversibilità può andare anche a chi abbia pochi guadagni ma molta ricchezza (dai depositi in banca alle case). La riforma dell'assistenza contenuta nella delega suggerisce in generale di legare le prestazioni all'Isee, cioè all'indicatore della ricchezza familiare (redditi e patrimonio mobiliare e immobiliare) che certamente è più completo del reddito Irpef. Alla fine, pare di capire, non si farà nulla. La materia presenta troppi rischi. Da quello di creare nuovi poveri, che andrebbero comunque assistiti, a quello di costituire un precedente che autorizzerebbe strette anche su altre prestazioni ora non legate all'Isee. Per non dire dei rischi elettorali. Ogni volta che si parla di pensioni la tentazione di cedere alle strumentalizzazioni prevale sulle analisi più ponderate. Oggi molti tirano un sospiro di sollievo. Ma questo non significa che in futuro non si dovrà tornare sulla sostenibilità di prestazioni pensate per un'Italia che non c'è più: quella delle donne che, di regola, non lavoravano e non avevano di che mantenersi. L'Isee, se usato con criterio, può servire a redistribuire in maniera più equa le prestazioni. Senza scatenare una guerra tra vecchi e nuovi poveri."
Quell'Italia che non c'è più ha comunque lasciato in eredità all'Italia che c'è e, soprattutto, a quella che ci sarà, un insostenibile schema Ponzi che mischia assistenza e previdenza sotto l'insegna del welfare state. Le pensioni di reversibilità in un sistema a ripartizione possono gravare pesantemente su chi paga per mantenere in piedi il sistema. E d'altra parte sarà pur vero che l'assegno unitario ottenuto con una media aritmetica è di "soli" 733 euro al mese, ma il totale è di 41 miliardi, che non sono proprio noccioline. Peraltro secondo la relazione del Governo al ddl i beneficiari sarebbero 3 milioni e la spesa totale 24,1 miliardi. Pur sempre una bella cifra.
Se il sistema fosse a capitalizzazione e magari neppure reso obbligatorio e gestito dallo Stato, la questione della reversibilità sarebbe affrontata contrattualmente tra l'aderente alla forma di previdenza e la società che gestisce il fondo. Sarebbe quindi possibile stabilire quale parte del montante contributivo incassare al momento del pensionamento, quale parte destinare a rendita, eventualmente prevedendo una forma di reversibilità a favore di un beneficiario prestabilito.
Finanziariamente il tutto dipenderebbe dal montante contributivo e dalla speranza di vita dei soggetti in questione. In ogni caso, il rischio di dover pagare a più a lungo di quanto ex ante statisticamente previsto un assegno di reversibilità sarebbe assunto volontariamente e gestito professionalmente dalla società che gestisce il fondo pensione o prodotto assimilabile.
Nel caso del sistema pensionistico pubblico, invece, tale rischio è a carico di chi oggi paga i contributi. Quindi le difese delle pensioni di reversibilità che si basano sull'argomento dei diritti acquisiti o delle promesse fatte dallo Stato sono a mio parere inaccettabili, dato che ciò comporta lo scaricare (ulteriori) oneri su persone che non hanno fatto quelle promesse.
Da questo punto di vista, stare a disquisire se sia meglio utilizzare il reddito Irpef o l'Isee per determinare il diritto alla reversibilità equivale a non voler affrontare il problema reale, ossia stabilire se la pensione in questione ha una copertura finanziaria dai contributi versati a suo tempo dal defunto oppure no. Se si tratta di questa seconda ipotesi (da verificare caso per caso, ma molto probabile), allora non si fa altro che perpetuare anche dopo la morte del pensionato un pagamento a favore del superstite che non ha alcuna ragione di esistere, se non di tipo assistenziale/redistributivo.
Il tutto fino a quando il sistema arriverà al collasso per eccessiva carenza di animali da soma che continuano a pagare pensioni non solo a gente che non se le è guadagnate, ma perfino ai loro superstiti.
Scrive Marro:
"Le pensioni di reversibilità rappresentano un pezzo fondamentale dello Stato sociale per circa 4,3 milioni di «superstiti»: in buona parte vedove, che percepiscono per tutta la loro restante vita, in base al reddito, dal 30 al 60% di quella che era la pensione del marito deceduto. Per questa voce si spendono circa 41 miliardi di euro l'anno (che fanno 733 euro in media a testa per tredici mensilità). È vero, in un caso su tre l'assegno di reversibilità costituisce l'unica forma di reddito (il 67,5% dei percettori la cumula invece con altre pensioni), o comunque la principale, che si somma alla casa di abitazione lasciata in eredità dal coniuge. Ma è anche vero che, essendo legata all'imponibile Irpef del percettore, la reversibilità può andare anche a chi abbia pochi guadagni ma molta ricchezza (dai depositi in banca alle case). La riforma dell'assistenza contenuta nella delega suggerisce in generale di legare le prestazioni all'Isee, cioè all'indicatore della ricchezza familiare (redditi e patrimonio mobiliare e immobiliare) che certamente è più completo del reddito Irpef. Alla fine, pare di capire, non si farà nulla. La materia presenta troppi rischi. Da quello di creare nuovi poveri, che andrebbero comunque assistiti, a quello di costituire un precedente che autorizzerebbe strette anche su altre prestazioni ora non legate all'Isee. Per non dire dei rischi elettorali. Ogni volta che si parla di pensioni la tentazione di cedere alle strumentalizzazioni prevale sulle analisi più ponderate. Oggi molti tirano un sospiro di sollievo. Ma questo non significa che in futuro non si dovrà tornare sulla sostenibilità di prestazioni pensate per un'Italia che non c'è più: quella delle donne che, di regola, non lavoravano e non avevano di che mantenersi. L'Isee, se usato con criterio, può servire a redistribuire in maniera più equa le prestazioni. Senza scatenare una guerra tra vecchi e nuovi poveri."
Quell'Italia che non c'è più ha comunque lasciato in eredità all'Italia che c'è e, soprattutto, a quella che ci sarà, un insostenibile schema Ponzi che mischia assistenza e previdenza sotto l'insegna del welfare state. Le pensioni di reversibilità in un sistema a ripartizione possono gravare pesantemente su chi paga per mantenere in piedi il sistema. E d'altra parte sarà pur vero che l'assegno unitario ottenuto con una media aritmetica è di "soli" 733 euro al mese, ma il totale è di 41 miliardi, che non sono proprio noccioline. Peraltro secondo la relazione del Governo al ddl i beneficiari sarebbero 3 milioni e la spesa totale 24,1 miliardi. Pur sempre una bella cifra.
Se il sistema fosse a capitalizzazione e magari neppure reso obbligatorio e gestito dallo Stato, la questione della reversibilità sarebbe affrontata contrattualmente tra l'aderente alla forma di previdenza e la società che gestisce il fondo. Sarebbe quindi possibile stabilire quale parte del montante contributivo incassare al momento del pensionamento, quale parte destinare a rendita, eventualmente prevedendo una forma di reversibilità a favore di un beneficiario prestabilito.
Finanziariamente il tutto dipenderebbe dal montante contributivo e dalla speranza di vita dei soggetti in questione. In ogni caso, il rischio di dover pagare a più a lungo di quanto ex ante statisticamente previsto un assegno di reversibilità sarebbe assunto volontariamente e gestito professionalmente dalla società che gestisce il fondo pensione o prodotto assimilabile.
Nel caso del sistema pensionistico pubblico, invece, tale rischio è a carico di chi oggi paga i contributi. Quindi le difese delle pensioni di reversibilità che si basano sull'argomento dei diritti acquisiti o delle promesse fatte dallo Stato sono a mio parere inaccettabili, dato che ciò comporta lo scaricare (ulteriori) oneri su persone che non hanno fatto quelle promesse.
Da questo punto di vista, stare a disquisire se sia meglio utilizzare il reddito Irpef o l'Isee per determinare il diritto alla reversibilità equivale a non voler affrontare il problema reale, ossia stabilire se la pensione in questione ha una copertura finanziaria dai contributi versati a suo tempo dal defunto oppure no. Se si tratta di questa seconda ipotesi (da verificare caso per caso, ma molto probabile), allora non si fa altro che perpetuare anche dopo la morte del pensionato un pagamento a favore del superstite che non ha alcuna ragione di esistere, se non di tipo assistenziale/redistributivo.
Il tutto fino a quando il sistema arriverà al collasso per eccessiva carenza di animali da soma che continuano a pagare pensioni non solo a gente che non se le è guadagnate, ma perfino ai loro superstiti.
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