Scorie - L'orgoglio della sconfitta

"Sono orgogliosa della campagna che ho condotto", ha detto Kamala Harris dopo aver preso cappotto alle elezioni presidenziali statunitensi.

Dopo essere stata (tenuta?) all'ombra di un sempre meno lucido (qualcuno potrebbe dire che sto usando un eufemismo e avrebbe ragione) Joe Biden, il cui passo era oltre tutto ogni giorno più malfermo, Harris è stata nominata come candidata alla presidenza mediante decisione dei vertici del Partito Democratico, che nel frattempo hanno spinto Biden a ritirarsi dalla corsa. 

Da quel giorno di luglio, Harris è diventata una bambina prodigio per gran parte della stampa americana (e non solo). Non passava giorno in cui non si leggesse di quanto era brava, quanti milioni di dollari stesse raccogliendo la sua campagna, quanto avrebbe beneficiato dei voti delle minoranze varie, oltre che di pressoché tutte le donne.

Ovviamente l'avversario era qualcosa di peggio del diavolo in versione fascista e solo dei deficienti avrebbero potuto (ri)votarlo.

Per quanto mi riguarda ero e resto convinto che, soprattutto dal punto di vista dell'economia e della finanza pubblica, entrambi avessero pessime proposte. Ma se uno non sopporta la opprimente retorica woke, l'ambientalismo fanatico e tutto il resto del pacchetto liberal, la mattina del 6 novembre non può non aver sorriso pensando al sapore di escrementi che questi signori stavano sentendo nelle loro bocche.

Ma Harris è comunque orgogliosa, e ovviamente è libera di esserlo.

E i miliardari che l'hanno sostenuta? Micheal Bloomberg, che oltre a fare cospicue donazioni alla campagna democratica ha per mesi e mesi inondato la sua piattaforma di articoli a sostegno della Harris corredati da altrettanti pezzi che descrivevano Trump come se fosse peggio di Hitler, il giorno dopo la sconfitta ha vergato un editoriale patetico.

In sostanza, nonostante i Repubblicani abbiano eletto il Presidente e controllino entrambe le camere, a suo parere dovrebbero prendere provvedimenti bipartisan, come se la vittoria non fosse stata tale o i due rami del Parlamento avessero maggioranze diverse.

Quanto all'analisi dei motivi della sconfitta dei democratici: 

"I democratici, da parte loro, potrebbero chiedersi come esattamente abbiano perso contro Trump, un 78enne malato che gran parte del paese disprezza. Probabilmente non è stato bello nascondere le infermità del presidente Joe Biden finché non sono diventate innegabili in diretta TV. Non è stato l'ideale che gli anziani del partito lo abbiano sostituito con Harris, una candidata che non aveva ricevuto voti elettorali e aveva fallito in modo decisivo in una precedente corsa presidenziale."

I numeri, per quanto ciò possa non piacere, dicono che non è la "gran parte del paese" a disprezzare Trump, altrimenti non avrebbe vinto comodamente anche il voto popolare. Forse la gran parte del Paese non ne può più di quelle che i democratici, soprattutto i più benestanti, considerano priorità e che invece sono, per attingere a quel mostro sacro che era il ragionier Fantozzi, "cagate pazzesche".

Quanto alle altre velate autocritiche in merito alla gestione dell'avvicendamento tra Biden e Harris, mi sembra appena il caso di sottolineare che il suo gruppo editoriale è stato tra quelli che più hanno appoggiato ogni singolo passaggio, anche se adesso i cantori della candidata democratica, che prima scrivevano anche più pezzi al giorno, stanno elaborando il lutto.

Talvolta non è la vittoria di un candidato che dà soddisfazione, ma la sconfitta dell'avversario. Per me in queste elezioni presidenziali americane è proprio così.

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