Scorie - Falsità sulla deflazione
"Un'inflazione intorno, ma sotto al 2%, come quella fissata dalla Bce… viene ritenuta negativa… in base a un'assurda concezione che porta a privilegiare prezzi prossimi alla deflazione: vi concorrono i noti riflessi della crisi degli anni 30, ma ciò non giustifica la critica che viene mossa, dimostrando di non conoscere i danni che un'inflazione assai bassa può arrecare a investimenti e risparmi (questi ultimi accumulati in modo patologico in totale assenza di prospettive certe)."
(A. De Mattia)
Da una persona che, come Angelo De Mattia, ha lavorato a lungo alla Banca d'Italia non ci si può ragionevolmente attendere che vengano critiche alle politiche monetarie espansive della Bce, a maggior ragione se a guidarla è Mario Draghi, che prima di trasferirsi a Francoforte ha lavorato al Tesoro ed è stato governatore della Banca d'Italia stessa (i maligni ricordano anche il passaggio in Goldman Sachs).
De Mattia fa riferimento ai concetti maistream di inflazione e deflazione, ossia a una crescita/decrescita di un indice di prezzi al consumo. La Bce ha come obiettivo mantenere l'inflazione dei prezzi al consumo vicino ma sotto al 2% annuo.
A chi obietta che la stabilità dei prezzi – pur restando nell'ambito di una definizione necessariamente arbitraria dovuta al fatto che un indice non può rappresentare perfettamente la realtà, né le variazioni dei prezzi relativi – si avrebbe quanto meno se l'indice non variasse nel tempo, i sostenitori del limite fissato al 2% (comune a diverse banche centrali) ribattono che i metodi utilizzati per stimare l'andamento di tali indici tendono a sovrastimare l'andamento dei prezzi, per cui a fronte di un indice invariato si sarebbe di fronte a prezzi in calo.
A me non interessa tanto stare a discutere di questo aspetto apparentemente tecnico (in realtà mi pare che sia profondamente politico), bensì concentrarmi sui danni che De Mattia ritiene vengano prodotti dalla deflazione, addirittura sui risparmi.
Un andamento calante dei prezzi genera un aumento dei debiti in termini reali, e questo è il principale motivo per cui la deflazione dei prezzi al consumo è considerata uno "spettro", in un mondo nel quale tutto il sistema monetario (quindi economico) è fortemente basato sul debito e i principali debitori sono gli Stati e le grandi aziende (finanziarie e non).
Ogni variazione dei prezzi genera effetti redistributivi, e se le variazioni dei prezzi fossero effetto di dinamiche di libero mercato non vi sarebbe nulla da dire. Il fatto è che si tratta per lo più di conseguenze di politiche monetarie, ossia di fattori esogeni alle dinamiche di libero mercato. Da questo punto di vista, la redistribuzione che si verifica per effetto delle variazioni dei prezzi non è troppo diversa da quella provocata da interventi fiscali. Così come ci sono pagatori e consumatori di tasse, vi sono pagatori e consumatori di inflazione.
Solitamente tra i motivi per temere la deflazione viene citata la tendenza da parte dei consumatori a rinviare le decisioni di spesa in vista di ulteriori diminuzioni dei prezzi. Ciò diminuirebbe la domanda, generando effetti recessivi. Al contrario, "un po'" (e questo "po'" è di volta in volta stabilito arbitrariamente dai keynesiani) di inflazione avrebbe effetti benefici sulla domanda.
Ora, che le spese vengano rinviate è quanto meno opinabile. La cosa non vale certo per gli alimentari, ma neppure per alcuni beni non di prima necessità. Non credo che sia perché la versione precedente di iPhone non funziona più che, ogni volta che esce un modello nuovo, molte persone fanno la fila davanti ai negozi della Apple per comprarlo, pagandolo certamente di più di quanto lo potrebbero pagare pochi mesi dopo. E questo per fare un solo esempio. Oltre tutto, lo Stato (agendo direttamente o tramite una banca centrale) non dovrebbe neppure spingere gli individui ad anticipare o posticipare decisioni di spesa.
Ciò detto, sostenere che la deflazione faccia male ai risparmi è davvero bizzarro. A fare male ai risparmi è la manipolazione al ribasso dei tassi di interesse. L'aumento dei risparmi, in parte in realtà dovuto semplicemente a un aumento di base monetaria (frutto di politiche monetarie espansive) non utilizzata, soprattutto nella forma di liquidità, è dovuto alla estrema incertezza che la compressione artificiale dei tassi di interesse genera negli investitori.
Alcuni sono spinti ad assumere più rischi, allungando la durata degli investimenti obbligazionari oppure prestando denaro a debitori meno affidabili, o ancora spostandosi verso investimenti azionari o in attività reali. Altri, quelli che non possono (per regolamento) o non vogliono (per caratteristiche individuali) assumere più rischi, preferiscono accumulare liquidità. E in un contesto di tassi artificialmente compressi verso zero (o addirittura sotto zero), la mancanza di rendimento dai risparmi e l'incertezza a essa correlata inducono a risparmiare di più, se possibile.
Ma non è la deflazione dei prezzi al consumo a generare questo fenomeno. Al contrario, è l'azione delle banche centrali volte a contrastare tale deflazione. Questa fa (e farà) i danni veri.
(A. De Mattia)
Da una persona che, come Angelo De Mattia, ha lavorato a lungo alla Banca d'Italia non ci si può ragionevolmente attendere che vengano critiche alle politiche monetarie espansive della Bce, a maggior ragione se a guidarla è Mario Draghi, che prima di trasferirsi a Francoforte ha lavorato al Tesoro ed è stato governatore della Banca d'Italia stessa (i maligni ricordano anche il passaggio in Goldman Sachs).
De Mattia fa riferimento ai concetti maistream di inflazione e deflazione, ossia a una crescita/decrescita di un indice di prezzi al consumo. La Bce ha come obiettivo mantenere l'inflazione dei prezzi al consumo vicino ma sotto al 2% annuo.
A chi obietta che la stabilità dei prezzi – pur restando nell'ambito di una definizione necessariamente arbitraria dovuta al fatto che un indice non può rappresentare perfettamente la realtà, né le variazioni dei prezzi relativi – si avrebbe quanto meno se l'indice non variasse nel tempo, i sostenitori del limite fissato al 2% (comune a diverse banche centrali) ribattono che i metodi utilizzati per stimare l'andamento di tali indici tendono a sovrastimare l'andamento dei prezzi, per cui a fronte di un indice invariato si sarebbe di fronte a prezzi in calo.
A me non interessa tanto stare a discutere di questo aspetto apparentemente tecnico (in realtà mi pare che sia profondamente politico), bensì concentrarmi sui danni che De Mattia ritiene vengano prodotti dalla deflazione, addirittura sui risparmi.
Un andamento calante dei prezzi genera un aumento dei debiti in termini reali, e questo è il principale motivo per cui la deflazione dei prezzi al consumo è considerata uno "spettro", in un mondo nel quale tutto il sistema monetario (quindi economico) è fortemente basato sul debito e i principali debitori sono gli Stati e le grandi aziende (finanziarie e non).
Ogni variazione dei prezzi genera effetti redistributivi, e se le variazioni dei prezzi fossero effetto di dinamiche di libero mercato non vi sarebbe nulla da dire. Il fatto è che si tratta per lo più di conseguenze di politiche monetarie, ossia di fattori esogeni alle dinamiche di libero mercato. Da questo punto di vista, la redistribuzione che si verifica per effetto delle variazioni dei prezzi non è troppo diversa da quella provocata da interventi fiscali. Così come ci sono pagatori e consumatori di tasse, vi sono pagatori e consumatori di inflazione.
Solitamente tra i motivi per temere la deflazione viene citata la tendenza da parte dei consumatori a rinviare le decisioni di spesa in vista di ulteriori diminuzioni dei prezzi. Ciò diminuirebbe la domanda, generando effetti recessivi. Al contrario, "un po'" (e questo "po'" è di volta in volta stabilito arbitrariamente dai keynesiani) di inflazione avrebbe effetti benefici sulla domanda.
Ora, che le spese vengano rinviate è quanto meno opinabile. La cosa non vale certo per gli alimentari, ma neppure per alcuni beni non di prima necessità. Non credo che sia perché la versione precedente di iPhone non funziona più che, ogni volta che esce un modello nuovo, molte persone fanno la fila davanti ai negozi della Apple per comprarlo, pagandolo certamente di più di quanto lo potrebbero pagare pochi mesi dopo. E questo per fare un solo esempio. Oltre tutto, lo Stato (agendo direttamente o tramite una banca centrale) non dovrebbe neppure spingere gli individui ad anticipare o posticipare decisioni di spesa.
Ciò detto, sostenere che la deflazione faccia male ai risparmi è davvero bizzarro. A fare male ai risparmi è la manipolazione al ribasso dei tassi di interesse. L'aumento dei risparmi, in parte in realtà dovuto semplicemente a un aumento di base monetaria (frutto di politiche monetarie espansive) non utilizzata, soprattutto nella forma di liquidità, è dovuto alla estrema incertezza che la compressione artificiale dei tassi di interesse genera negli investitori.
Alcuni sono spinti ad assumere più rischi, allungando la durata degli investimenti obbligazionari oppure prestando denaro a debitori meno affidabili, o ancora spostandosi verso investimenti azionari o in attività reali. Altri, quelli che non possono (per regolamento) o non vogliono (per caratteristiche individuali) assumere più rischi, preferiscono accumulare liquidità. E in un contesto di tassi artificialmente compressi verso zero (o addirittura sotto zero), la mancanza di rendimento dai risparmi e l'incertezza a essa correlata inducono a risparmiare di più, se possibile.
Ma non è la deflazione dei prezzi al consumo a generare questo fenomeno. Al contrario, è l'azione delle banche centrali volte a contrastare tale deflazione. Questa fa (e farà) i danni veri.
Cito: "Ogni variazione dei prezzi genera effetti redistributivi"
RispondiEliminaFarei però una distinzione tra i casi di deflazione da domanda e di deflazione da offerta. Nel primo caso, i creditori ottengono un vantaggio "a spese" dei debitori; nel secondo, vengono beneficiati sia i creditori che i debitori.
CASO 1
Un'impresa produce 100 penne ogni ora, al costo unitario di 0.5 euro. Ogni penna viene venduta a 1€. Quindi il guadagno orario è pari a 50€. Se l'impresa ha un debito, la cui rata è pari a 5€, significa che l'onere del debito è pari a 5 penne o a 1/20 di ora di lavoro.
Cosa succede se raddoppia la produttività?
CASO 2
L'impresa produce 200 penne ogni ora, al costo unitario di 0.25 euro. Ogni penna viene venduta a 0.5€. Quindi il guadagno orario è pari a 50€. Una rata pari a 5€ significa che l'onere del debito è pari a 10 penne o a 1/20 di ora di lavoro.
Perciò il debito è raddoppiato in termini di penne, ma non di lavoro aziendale necessario a ripagarlo. D'altra parte, anche il guadagno è raddoppiato in relazione al numero di penne che può comprare. Perciò l'aumento di produttività ha beneficiato proporzionalmente sia il creditore, sia il debitore. Anche se il debito reale è aumentato, l'azienda non deve lavorare di più per onorarlo.
Analogamente, l'inflazione da offerta danneggia proporzionalmente sia i creditori, sia i debitori. Solo i movimenti dal lato della domanda (vedi l'inflazione monetaria) beneficiano qualcuno a spese dell'altro.
Sbaglio?
Grazie per l'osservazione.
RispondiEliminaNegli esempi fatti, poi, si considera che vi sia contemporaneamente un aumento di offerta e anche un aumento di domanda. Non è detto che sia sempre così.
In ogni caso, la frase da cui è partito per fare l’esempio andrebbe letta per intero. “Ogni variazione dei prezzi genera effetti redistributivi, e se le variazioni dei prezzi fossero effetto di dinamiche di libero mercato non vi sarebbe nulla da dire.” Ecco, io non avrei nulla da dire se aumenta l’offerta (per esempio con un aumento di produttività) e anche la domanda. Mi sembrano normali dinamiche di mercato. Ma è un fatto che nell’esempio 2 l’incremento di produttività beneficia il consumatore e riduce il margine unitario del produttore. Prova ne sia che per ottenere lo stesso margine deve vendere il doppio di penne.
Grazie per la cortese risposta!
EliminaConcordo con le sue osservazioni.