Scorie - Il pastore tassatore - parte prima
"Quale responsabilità etica comportano queste variegate competenze? La
risposta non può che partire dal fatto che l'attività del commercialista
riguarda non solo gli interessi del cliente, ma anche e propriamente quelli
della collettività: si potrebbe affermare che suo compito specifico è
mediare in maniera corretta fra interessi pubblici e privati, non
contrapponendoli, ma commisurandoli, affinché il bene comune sia
effettivamente il bene dei singoli, e questo sia a sua volta finalizzato al
bene di tutti. La logica che veda nel commercialista soltanto l'alleato del
contribuente contro il fisco è senz'altro miope e perdente per tutti."
(B. Forte)
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto spesso ospitato la domenica sul
Sole 24 Ore, è di recente intervenuto sul tema della responsabilità etica
di coloro che esercitano la professione di dottore commercialista.
L'articolo è talmente intriso di argomentazioni deboli e a mio parere del
tutto non condivisibili che impiegherò qualche giorno a commentarlo nei
suoi punti più significativi.
Oggi comincio con le prime affermazioni che mi lasciano perplesso, perché
monsignor Forte sembra che parli più da direttore dell'Agenzia delle
entrate che da pastore di anime. Dunque, il commercialista non dovrebbe
avere a cuore i soli interessi del cliente (che è poi colui che paga la sua
prestazione professionale), bensì pensare anche a quelli della
collettività. E per chi, come il sottoscritto, rimanesse interdetto di
fronte a un concetto fumoso come "interesse della collettività", monsignor
Forte spiega che il commercialista deve mediare tra interessi pubblici e
privati "non contrapponendoli, ma commisurandoli, affinché il bene comune
sia effettivamente il bene dei singoli, e questo sia a sua volta
finalizzato al bene di tutti".
In pratica, il bene comune deve essere il bene dei singoli, ma questo deve
essere finalizzato al bene di tutti. Qualunque cosa significhi il bene di
tutti, che a me ancora sfugge. O, per meglio dire, a me pare un concetto
dal significato del tutto soggettivo. E credo che possano sorgere – e in
effetti sorgano – dei problemi quando il singolo abbia idee diverse dagli
altri sul bene comune e, magari, sia mal disposto (per usare un eufemismo)
a essere costretto da altri a perseguire con i propri averi quello che
costoro ritengono essere il bene comune.
Dopo aver usato un linguaggio un po' "nebbioso" per identificare il bene
del singolo con il bene di tutti, monsignor Forte sentenzia in modo
perentorio che "la logica che veda nel commercialista soltanto l'alleato
del contribuente contro il fisco è senz'altro miope e perdente per tutti".
Nei prossimi giorni approfondirò la questione, ma a prima vista mi sembra
che anche l'accusa di miopia sia frutto di un parere meramente soggettivo.
Al tempo stesso, la logica dell'alleanza tra cliente e commercialista
contro il fisco potenzialmente è soddisfacente per almeno questi due
soggetti, il che esclude che sia perdente in ogni caso per tutti.
Piaccia o meno a monsignor Forte, chi paga le tasse non aspira a
massimizzare il carico fiscale (la stessa Chiesa cattolica, sia detto per
inciso, non si è offerta volontariamente per pagare l'Imu, mentre sosteneva
che fosse giusto che la pagassero gli altri). E se paga un professionista
esperto di fisco non lo fa perché costui gli indichi la strada per pagare
più tasse possibile. Altrimenti un perdente certo ci sarebbe: il
cliente-contribuente.
risposta non può che partire dal fatto che l'attività del commercialista
riguarda non solo gli interessi del cliente, ma anche e propriamente quelli
della collettività: si potrebbe affermare che suo compito specifico è
mediare in maniera corretta fra interessi pubblici e privati, non
contrapponendoli, ma commisurandoli, affinché il bene comune sia
effettivamente il bene dei singoli, e questo sia a sua volta finalizzato al
bene di tutti. La logica che veda nel commercialista soltanto l'alleato del
contribuente contro il fisco è senz'altro miope e perdente per tutti."
(B. Forte)
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto spesso ospitato la domenica sul
Sole 24 Ore, è di recente intervenuto sul tema della responsabilità etica
di coloro che esercitano la professione di dottore commercialista.
L'articolo è talmente intriso di argomentazioni deboli e a mio parere del
tutto non condivisibili che impiegherò qualche giorno a commentarlo nei
suoi punti più significativi.
Oggi comincio con le prime affermazioni che mi lasciano perplesso, perché
monsignor Forte sembra che parli più da direttore dell'Agenzia delle
entrate che da pastore di anime. Dunque, il commercialista non dovrebbe
avere a cuore i soli interessi del cliente (che è poi colui che paga la sua
prestazione professionale), bensì pensare anche a quelli della
collettività. E per chi, come il sottoscritto, rimanesse interdetto di
fronte a un concetto fumoso come "interesse della collettività", monsignor
Forte spiega che il commercialista deve mediare tra interessi pubblici e
privati "non contrapponendoli, ma commisurandoli, affinché il bene comune
sia effettivamente il bene dei singoli, e questo sia a sua volta
finalizzato al bene di tutti".
In pratica, il bene comune deve essere il bene dei singoli, ma questo deve
essere finalizzato al bene di tutti. Qualunque cosa significhi il bene di
tutti, che a me ancora sfugge. O, per meglio dire, a me pare un concetto
dal significato del tutto soggettivo. E credo che possano sorgere – e in
effetti sorgano – dei problemi quando il singolo abbia idee diverse dagli
altri sul bene comune e, magari, sia mal disposto (per usare un eufemismo)
a essere costretto da altri a perseguire con i propri averi quello che
costoro ritengono essere il bene comune.
Dopo aver usato un linguaggio un po' "nebbioso" per identificare il bene
del singolo con il bene di tutti, monsignor Forte sentenzia in modo
perentorio che "la logica che veda nel commercialista soltanto l'alleato
del contribuente contro il fisco è senz'altro miope e perdente per tutti".
Nei prossimi giorni approfondirò la questione, ma a prima vista mi sembra
che anche l'accusa di miopia sia frutto di un parere meramente soggettivo.
Al tempo stesso, la logica dell'alleanza tra cliente e commercialista
contro il fisco potenzialmente è soddisfacente per almeno questi due
soggetti, il che esclude che sia perdente in ogni caso per tutti.
Piaccia o meno a monsignor Forte, chi paga le tasse non aspira a
massimizzare il carico fiscale (la stessa Chiesa cattolica, sia detto per
inciso, non si è offerta volontariamente per pagare l'Imu, mentre sosteneva
che fosse giusto che la pagassero gli altri). E se paga un professionista
esperto di fisco non lo fa perché costui gli indichi la strada per pagare
più tasse possibile. Altrimenti un perdente certo ci sarebbe: il
cliente-contribuente.
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