Scorie - La facilitazione non è mai grande abbastanza

Quando c'è vento di rallentamento dell'economia, i keynesiani si ringalluzziscono e riempiono le pagine dei giornali (in Italia mai restii nel concedere loro spazio) per esortare i governi a seguire la ricetta del maestro. Qualcuno potrebbe peraltro osservare che lo fanno anche quando le cosse vanno meno male, e avrebbe ragione. Direi che nei momenti di rallentamento o recessione tendono semplicemente ad alzare il volume.

Piergiorgio Gawronsky, per esempio, trova spazio sul Sole 24Ore per indicare in quella giapponese la via da seguire.

"A proposito di "un'Europa migliore", forse è utile riflettere sul grafico di un Paese lontano, che nel 2013 era in stallo, come l'Italia, ma poi decise di adottare con decisione un vasto spettro di politiche keynesiane. Lo ha potuto fare grazie alla sua sovranità monetaria. Il governo di quel Paese fin dall'inizio ha preso di mira la variabile giusta: le aspettative sull'andamento della domanda aggregata. Nonostante una situazione più difficile che da noi (su debito e deficit pubblico, deflazione, invecchiamento, caduta della produttività, meno "riserve" di disoccupati e capacità produttiva), le politiche keynesiane del 2013-2017 hanno avuto un effetto immediato."

Come no: il Giappone continua ad alternare trimestri di alti a trimestri di bassi, nonostante deficit pubblici costantemente tra 3.7 e 7.9 punti di Pil nel periodo considerato da Gawronsky (andando indietro la sostanza non cambierebbe) e un costo del debito poco sopra zero per via della ormai ventennale politica monetaria ultraespansiva.

Ecco, poi, l'elogio della svalutazione.

"In ambienti europei nel 2013 si sosteneva che le svalutazioni non hanno più effetto nel mondo di oggi dominato dalle multinazionali; non migliorano la bilancia commerciale, né il Pil e l'occupazione. E, fraintendendo i lag temporali necessari, si portava come prova il Giappone, che da pochi mesi aveva iniziato a svalutare lo yen. Si indicavano anche i rischi: inflazione e tassi d'interesse alle stelle, e altre catastrofi. Ma oggi si constata che la forte crescita dell'export è stata una delle cause trainanti dell'improvvisa ripresa del Giappone, mentre l'inflazione è ancora allo 0,7%, e i tassi allo 0 per cento. D'altronde anche in Italia, dopo la grande svalutazione della lira, nel 1993-96 la bilancia commerciale migliorò di 4,5 punti di Pil, l'inflazione di due punti, e i tassi di cinque."

Ma sì, affidiamoci tutti quanti alla droga della svalutazione, certamente gli altri staranno a guardare felici e contenti.

E pazienza se la produttività non migliora.

"In Europa si sostiene inoltre che è la produttività la variabile da prendere di mira, per uscire dalla depressione. Ma in Giappone la produttività non ha mostrato cenni di ripresa. Il che ci dice due cose. Quando c'è una crisi di domanda: (a) la ripresa non dipende affatto dalla produttività; (b) la produttività è insensibile agli impulsi delle cosiddette riforme strutturali, che pure il Giappone ha tentato, (nondimeno, molte riforme strutturali possono essere utili per altre ragioni – soprattutto nel settore pubblico – se fatte nella giusta sequenza e con pragmatismo)."

Quella delle riforme strutturali, che era la terza freccia della Abenomics, è stata la più spuntata di tutte. Alla fine le frecce utilizzate sono state la politica fiscale espansiva e quella monetaria ultraespansiva. In contesti del genere non vi è alcuno stimolo all'aumento della produttività, perché con tassi a zero sopravvivono anche vere e proprie imprese zombie.

Peccato che in Europa ci si sia intestarditi a seguire la via sbagliata:

"Il pessimismo sulla svalutazione era funzionale alla tesi: "Ammesso che sia possibile, uscire dall'euro è inutile". Il pessimismo sull'Abenomics era funzionale alla tesi: "Non esistono ricette magiche, soluzioni rapide alla crisi: i problemi sono strutturali. Perciò non è utile né necessario cambiare paradigma in Europa: il Trattato di Maastricht e suoi derivati sono fondamentalmente sani. Occorre semmai aumentare la dose" (proposta franco-tedesca), o introdurre "un po' di flessibilità" (i più illuminati)."

Non che la Ue a trazione franco-tedesca sia priva di difetti (tutt'altro), ma se la via da seguire dovesse essere quella della svalutazione monetaria e della spesa in deficit, il passaggio sarebbe dalla padella alla brace.

Non è così per Gawronsky, ovviamente.

"Naturalmente, politiche keynesiane meno radicali ma comunque efficaci potrebbero realizzarsi anche nell'Eurozona. Nulla impedisce ai Paesi membri di fare una manovra espansiva fiscale coordinata. I "moltiplicatori" fiscali sarebbero più alti rispetto a quelli nazionali; non è poco. Ma purtroppo la Bce non potrebbe finanziare questa manovra (potrebbe facilitarla). Purtroppo i Paesi meno competitivi non potrebbero svalutare; e i Paesi mercantilisti continuerebbero ad approfittarne (violando gli articoli 1 e 4 del Fmi)."

Qualcuno dica a Gawronsky, perso a fantasticare di moltiplicatori tendenti all'infinito, che la BCE con il programma di quantitative easing ha comprato il 20% del debito pubblico dell'eurozona. A proposito di "facilitazioni".

Evidentemente la facilitazione non è mai grande abbastanza.


 "Se io domenica mattina vado a votare - ha sottolineato il Cardinale- è perché sono convinto che esista un bene comune che riguarda te, riguarda tutti noi. Siamo un 'noi' di cui dobbiamo tenere conto. E mi fa paura, invece, questo atteggiamento individualistico, in fondo, di non scegliere. E, poi, quante nazioni ci sono nel mondo dove non si vota, dove c'è una testa che ha già pensato tutto... In fondo noi viviamo in una democrazia... E' un valore aggiunto anche la democrazia. In democrazia senti cose dritte, senti cose storte, senti cose che condividi e non condividi... Certamente tutti abbiamo il dovere di informarci, di farci una coscienza. Il voto è esprimere un giudizio".

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