Scorie - Quale flessibilità?
"L'assunto da cui Tsipras si è mosso è comprensibile: ha vinto elezioni in base a programma diverso dal passato quindi se deve tenere il programma vuol dire che le elezioni non servono e poi che non strapperà i contratti ma chiede tempo. Serve intelligenza dell'Ue perché si rispettino le regole ma si usi flessibilità."
(M. Renzi)
Confermando di essere il leader della democrazia cristiana 2.0, Matteo Renzi, in questi giorni ha strizzato l'occhio al nuovo governo greco, al tempo stesso cercando di non prendere eccessiva distanza dalla posizione della Germania.
Come è noto, l'Italia, tra finanziamenti diretti e indiretti, ha un credito nei confronti della Grecia prossimo a 50 miliardi di euro, sui quali, tra l'altro, riceve un interesse inferiore al costo sostenuto per finanziare quei fondi. In pratica, i pagatori di tasse italiani stanno già sostenendo un'operazione di carry trade negativo, per di più correndo un rischio di credito molto elevato.
Perché su una cosa i nuovi governanti greci hanno ragione: la Grecia è uno Stato fallito. Lo era già nel 2001, quando i partner europei ne stabilirono l'ammissione all'area euro prendendo per buoni dei conti pubblici che qualsiasi stagista alla prima settimana di lavoro presso una società di revisione avrebbe ritenuto palesemente falsi.
Lo era a maggior ragione nel 2010, quando iniziò il soccorso da parte dei Paesi dell'area euro, seguiti poi dalla cosiddetta Troika, ossia Commissione europea, Bce e Fmi. Nel 2012 venne orchestrata una ristrutturazione ipocritamente definita volontaria nella quale vennero stravolte le norme per evitare alla Bce di subire gli effetti di quello che era a tutti gli effetti un default. In quell'occasione furono i creditori privati a rimettere alla Grecia circa 107 miliardi del suo debito pubblico.
Il patto con la Grecia era tutto sommato semplice: aiuti finanziari in cambio di un aggiustamento fiscale e strutturale. Di fatto una gestione commissariale, come avviene per le società in amministrazione straordinaria, pur con interventi che, ancorché il governo greco e i sinistrorsi di ogni dove sostengano che abbia generato una emergenza umanitaria, non aveva altro scopo che rimuovere le storture di uno stato assistenziale che non aveva pari in Europa.
Ogni schema di stato sociale è fondamentalmente uno schema Ponzi, ma è evidente che l'implosione arriva tanto prima quanto minore è la capacità di chi tiene il banco di raccogliere risorse fresche per alimentare lo schema stesso. Nel caso della Grecia, la carenza di gettito fiscale ha reso possibile coprire i buchi per anni solo grazie a una falsificazione contabile e alla dabbenaggine (per usare un eufemismo) dei partner europei.
Personalmente sono contrario sia allo stato sociale, sia all'imposizione fiscale, per cui non credo che la soluzione a un sistema di stato sociale con un forte gap finanziario consista nell'aumentare il gettito fiscale, bensì nello smontare lo stato sociale.
Nel caso della Grecia, tuttavia, ci si trova di fronte a un caso in cui vi è resistenza a ridimensionare lo stato sociale, mentre non si riesce (o non si vuole) aumentare il gettito fiscale in misura sufficiente a tappare i buchi (credo, peraltro, che sarebbe impossibile nel caso in questione).
La posizione del governo Tsipras è più o meno questa: il programma della Troika non lo vogliamo più proseguire; presenteremo un nuovo programma, bloccando le privatizzazioni e riassumendo migliaia di dipendenti pubblici, continuando a mandare in pensione la gente prima che altrove in Europa. I conti torneranno mediante la lotta all'evasione fiscale, ma nel frattempo ci servono soldi per galleggiare.
Parte del programma consisterebbe poi nel ridurre ulteriormente l'onere del debito, pari a circa il 175 per cento del Pil, per il 70 per cento nei confronti di creditori pubblici (ossia contribuenti dei altri Stati).
In questi giorni sono in corso trattative stucchevoli, in cui la Troika non deve più essere definita tale, pur restando la stessa nella sostanza, e i governi europei sembrano non sapere che pesci pigliare.
I greci pare non vogliano uscire dall'euro e dall'Ue, e li si può capire, dato che sono beneficiari netti del bilancio comunitario per circa 3 punti di Pil ogni anno.
Ammesso che si trovi una situazione di compromesso, non sarà affatto risolutiva, e i costi nel tempo aumenteranno. Voler evitare il fallimento quando un soggetto è fallito è una strategia alla lunga errata, tanto nel caso di aziende, quanto nel caso di Stati. Con l'aggravante, in quest'ultimo caso, che i costi e i rischi sono a carico di persone che non hanno, di fatto, alcuna voce in capitolo, checché ne dicano quelli che si riempiono la bocca della parola democrazia.
Trovo per nulla rassicurante la posizione di Renzi, che crede ritiene "comprensibile" la posizione assunta da Tsipras. Per carità, la Grecia non ripagherà mai quel debito, se non in moneta del tutto svalutata, ma almeno si smetta di alimentare quel pozzo senza fondo, invece di parlare a sproposito di flessibilità.
(M. Renzi)
Confermando di essere il leader della democrazia cristiana 2.0, Matteo Renzi, in questi giorni ha strizzato l'occhio al nuovo governo greco, al tempo stesso cercando di non prendere eccessiva distanza dalla posizione della Germania.
Come è noto, l'Italia, tra finanziamenti diretti e indiretti, ha un credito nei confronti della Grecia prossimo a 50 miliardi di euro, sui quali, tra l'altro, riceve un interesse inferiore al costo sostenuto per finanziare quei fondi. In pratica, i pagatori di tasse italiani stanno già sostenendo un'operazione di carry trade negativo, per di più correndo un rischio di credito molto elevato.
Perché su una cosa i nuovi governanti greci hanno ragione: la Grecia è uno Stato fallito. Lo era già nel 2001, quando i partner europei ne stabilirono l'ammissione all'area euro prendendo per buoni dei conti pubblici che qualsiasi stagista alla prima settimana di lavoro presso una società di revisione avrebbe ritenuto palesemente falsi.
Lo era a maggior ragione nel 2010, quando iniziò il soccorso da parte dei Paesi dell'area euro, seguiti poi dalla cosiddetta Troika, ossia Commissione europea, Bce e Fmi. Nel 2012 venne orchestrata una ristrutturazione ipocritamente definita volontaria nella quale vennero stravolte le norme per evitare alla Bce di subire gli effetti di quello che era a tutti gli effetti un default. In quell'occasione furono i creditori privati a rimettere alla Grecia circa 107 miliardi del suo debito pubblico.
Il patto con la Grecia era tutto sommato semplice: aiuti finanziari in cambio di un aggiustamento fiscale e strutturale. Di fatto una gestione commissariale, come avviene per le società in amministrazione straordinaria, pur con interventi che, ancorché il governo greco e i sinistrorsi di ogni dove sostengano che abbia generato una emergenza umanitaria, non aveva altro scopo che rimuovere le storture di uno stato assistenziale che non aveva pari in Europa.
Ogni schema di stato sociale è fondamentalmente uno schema Ponzi, ma è evidente che l'implosione arriva tanto prima quanto minore è la capacità di chi tiene il banco di raccogliere risorse fresche per alimentare lo schema stesso. Nel caso della Grecia, la carenza di gettito fiscale ha reso possibile coprire i buchi per anni solo grazie a una falsificazione contabile e alla dabbenaggine (per usare un eufemismo) dei partner europei.
Personalmente sono contrario sia allo stato sociale, sia all'imposizione fiscale, per cui non credo che la soluzione a un sistema di stato sociale con un forte gap finanziario consista nell'aumentare il gettito fiscale, bensì nello smontare lo stato sociale.
Nel caso della Grecia, tuttavia, ci si trova di fronte a un caso in cui vi è resistenza a ridimensionare lo stato sociale, mentre non si riesce (o non si vuole) aumentare il gettito fiscale in misura sufficiente a tappare i buchi (credo, peraltro, che sarebbe impossibile nel caso in questione).
La posizione del governo Tsipras è più o meno questa: il programma della Troika non lo vogliamo più proseguire; presenteremo un nuovo programma, bloccando le privatizzazioni e riassumendo migliaia di dipendenti pubblici, continuando a mandare in pensione la gente prima che altrove in Europa. I conti torneranno mediante la lotta all'evasione fiscale, ma nel frattempo ci servono soldi per galleggiare.
Parte del programma consisterebbe poi nel ridurre ulteriormente l'onere del debito, pari a circa il 175 per cento del Pil, per il 70 per cento nei confronti di creditori pubblici (ossia contribuenti dei altri Stati).
In questi giorni sono in corso trattative stucchevoli, in cui la Troika non deve più essere definita tale, pur restando la stessa nella sostanza, e i governi europei sembrano non sapere che pesci pigliare.
I greci pare non vogliano uscire dall'euro e dall'Ue, e li si può capire, dato che sono beneficiari netti del bilancio comunitario per circa 3 punti di Pil ogni anno.
Ammesso che si trovi una situazione di compromesso, non sarà affatto risolutiva, e i costi nel tempo aumenteranno. Voler evitare il fallimento quando un soggetto è fallito è una strategia alla lunga errata, tanto nel caso di aziende, quanto nel caso di Stati. Con l'aggravante, in quest'ultimo caso, che i costi e i rischi sono a carico di persone che non hanno, di fatto, alcuna voce in capitolo, checché ne dicano quelli che si riempiono la bocca della parola democrazia.
Trovo per nulla rassicurante la posizione di Renzi, che crede ritiene "comprensibile" la posizione assunta da Tsipras. Per carità, la Grecia non ripagherà mai quel debito, se non in moneta del tutto svalutata, ma almeno si smetta di alimentare quel pozzo senza fondo, invece di parlare a sproposito di flessibilità.
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