Scorie - Tasse e autonomia

Ogni volta che leggo un articolo di Vincenzo Visco non posso fare a meno di ricordare le sue gesta come ministro (o vice) delle tasse tra l'ultimo decennio del secolo scorso e il primo di quello corrente.

Cose come l'Irap, la sostanziale definizione di "ricco" per chiunque abbia un reddito lordo di 30mila euro, ma anche cose meno note come il cervellotico equalizzatore da applicare ai titoli obbligazionari senza cedola, che ebbe vita (fortunatamente) breve a inizio secolo.

Un signore che, peraltro godendo di folta compagnia in Italia, pensa al fisco come a uno strumento per realizzare il sogno (incubo) comunista in base al quale "a ognuno in base a suoi bisogni", ovviamente prendendo, loro malgrado, da altri.

Qualcosa del genere Visco lo applica intervenendo sul tema delle autonomie regionali differenziate. Ovviamente cercando di difendere il principio di solidarietà forzata che regola la direzione dei flussi di gettito fiscale costantemente nella stessa direzione.

Posto che l'unica vera motivazione addotta da chi cerca di evitare ogni cambiamento consiste nel sostenere che così è scritto nella costituzione, come se si trattasse di un testo sacro, Visco a un certo punto fa un uso distorto dei numeri.

Scrive infatti che "il dibattito è dominato da due equivoci di fondo: innanzitutto è convinzione molto diffusa che le Regioni del Nord dispongano oggi di risorse minori rispetto a quanto sarebbe "giusto". Si tratta di una impressione (?) errata, in quanto la spesa pro-capite delle Regioni settentrionali è già oggi superiore a quella delle Regioni del Sud di circa il 30%, mentre la pressione tributaria (riferita a imposte erariali, addizionali regionali e Irap) risulta in non poche Regioni del Sud analoga e talvolta superiore a quella delle Regioni del Nord. In altre parole a Sud si spende di meno pur tassando nella stessa misura. L'altro equivoco deriva dal principio della territorialità delle imposte, secondo cui i territori più ricchi avrebbero diritto a disporre di maggiori risorse da spendere, mentre in uno Stato unitario ciò che è importante è che i ricchi e i poveri paghino le stesse imposte indipendentemente dalla circostanza di risiedere, per esempio, a Milano o a Napoli. Il fatto che a Milano ci siano più ricchi che a Napoli dovrebbe essere irrilevante. E del resto nessuno si spinge a sostenere, seguendo la stessa logica, che in una città come Roma, gli abitanti dei Parioli avrebbero diritto a ricevere maggiori servizi di quelli di Tor Bella Monaca!"

In merito al primo equivoco, Visco prima parla di spesa pro-capite, salvo poi tirare in ballo la pressione tributaria, che rapporta le imposte al Pil delle diverse regioni. Sarebbe bene evitare di paragonare pere e mele: se si fa riferimento alla spesa pro-capite, si dovrebbe confrontarla con il gettito pro-capite. Oppure si dovrebbero considerare tanto la spesa quanto il gettito fiscale in rapporto al Pil delle diverse regioni.

Nessuno dubita che le imposte pagate in forza della legislazione nazionale colpiscano allo stesso modo la medesima base imponibile a prescindere dalla regione di appartenenza del pagatore di tasse (addizionali locali a parte). Ma è evidente, e Visco ne parla nel secondo equivoco, che in base alla distribuzione delle basi imponibili il gettito risulta non uniformemente distribuito.

Se la si pensa come Visco, si ritiene che sia diritto di chi produce meno gettito ricevere una parte più o meno consistente di gettito prodotto altrove, rendendo la spesa pro-capite una variabile indipendente. Ovviamente a tale diritto corrisponde il dovere di pagare il conto in capo a chi produce più gettito.

Si noti che se si ritiene ingiusto il comunismo (neppure troppo) implicito in questa solidarietà forzata, si dovrebbe per coerenza e logica ritenere ingiusto lo stesso principio applicato su scala locale. Ogni forma di tassazione, essendo basata sulla minaccia dell'uso della forza, è infatti una violazione del principio di non aggressione.

Probabilmente a molti tra coloro che sono contrari alla redistribuzione su scala nazionale risulta meno indigesta quella operata su scala locale, per esempio a livello comunale. E' una questione di sensibilità soggettive, dato che la sostanza di fondo non cambia.

Gli scambi tra soggetti diversi possono essere solo volontari o essere viziati da una qualche forma di coercizione. Terze vie non mi pare ci siano.


 "Se io domenica mattina vado a votare - ha sottolineato il Cardinale- è perché sono convinto che esista un bene comune che riguarda te, riguarda tutti noi. Siamo un 'noi' di cui dobbiamo tenere conto. E mi fa paura, invece, questo atteggiamento individualistico, in fondo, di non scegliere. E, poi, quante nazioni ci sono nel mondo dove non si vota, dove c'è una testa che ha già pensato tutto... In fondo noi viviamo in una democrazia... E' un valore aggiunto anche la democrazia. In democrazia senti cose dritte, senti cose storte, senti cose che condividi e non condividi... Certamente tutti abbiamo il dovere di informarci, di farci una coscienza. Il voto è esprimere un giudizio".

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