Scorie - Spesa e utilità
"La sfida 2015 si può sintetizzare così: da molte regioni del centro-nord ci arrivano già segnali importanti che il Pil è ripartito, al Sud invece è ancora tutto fermo. Sbloccare il Pil del Sud vuol dire far crescere l'Italia. Se riusciamo a spendere tutti i 9 miliardi previsti, avremo due punti percentuali aggiuntivi di Pil per il Mezzogiorno."
(G. Delrio)
In queste parole di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è condensato il succo dell'approccio keynesiano all'economia.
Quello che conta è aumentare la spesa, poco importa come i soldi vengono spesi. Lo stesso Keynes, d'altra parte, sostenne che "scavare buche nel terreno utilizzando il risparmio accumulato accrescerà non solo l'occupazione, ma anche la produzione nazionale di beni e servizi utili" (queste farneticazioni si trovano in quello che è considerato il suo capolavoro, ossia la Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta).
Il problema, come è noto, è dovuto alla costruzione dell'indicatore universalmente utilizzato per misurare l'andamento di un sistema economico, ossia il PIL. Ogni aumento della spesa pubblica determina, a parità di altre condizioni, un aumento del PIL di pari importo. Che questo faccia a pugni con il buon senso a me pare evidente, ma altrettanto evidente mi pare la convenienza di politici ed economisti interessati a fare i consiglieri del principe nel continuare a utilizzare il PIL per misurare l'andamento di un sistema economico.
Per inciso, questo è anche il motivo con il quale viene giustificata la ritrosia a ridurre la spesa pubblica. Qualche keynesiano pronto a giustificare ogni spesa, per quanto palesemente parassitaria, lo si trova sempre, sostenendo che quella spesa pubblica rappresenta reddito per determinati individui.
Nel caso specifico, i fondi europei altro non sono che una redistribuzione che avviene tra contribuenti dei diversi Paesi europei. Nel caso dell'Italia, tra l'altro, le uscite superano regolarmente le entrate e derivano per lo più da persone che non beneficiano in alcuna misura dei fondi che rientrano.
Il problema è che un reddito ottenuto a fronte del nulla non rappresenta un aumento di ricchezza, bensì una mera redistribuzione. E coloro ai quali le risorse sono prelevate mediante tassazione per generare quel reddito da spesa pubblica si trovano impossibilitati (e anche disincentivati) a produrre beni e servizi da offrire in scambi volontari, ossia gli unici che possono generare utilità per entrambi i contraenti (checché ne pensino Keynes e i suoi seguaci). Ciò finisce per determinare una minore produzione di ricchezza reale, o addirittura una sua diminuzione.
E a chi obietta che non è necessario aumentare le tasse per finanziare la spesa pubblica, dato che il denaro può essere creato dal nulla, va fatto notare che si tratta semplicemente di passare da una tassazione esplicita a una surrettizia. Ma sempre di redistribuzione si tratta.
In sostanza, non è possibile trasformare le pietre in pane, come argomentò Ludwig von Mises commentando un documento scritto proprio da Lord Keynes.
(G. Delrio)
In queste parole di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è condensato il succo dell'approccio keynesiano all'economia.
Quello che conta è aumentare la spesa, poco importa come i soldi vengono spesi. Lo stesso Keynes, d'altra parte, sostenne che "scavare buche nel terreno utilizzando il risparmio accumulato accrescerà non solo l'occupazione, ma anche la produzione nazionale di beni e servizi utili" (queste farneticazioni si trovano in quello che è considerato il suo capolavoro, ossia la Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta).
Il problema, come è noto, è dovuto alla costruzione dell'indicatore universalmente utilizzato per misurare l'andamento di un sistema economico, ossia il PIL. Ogni aumento della spesa pubblica determina, a parità di altre condizioni, un aumento del PIL di pari importo. Che questo faccia a pugni con il buon senso a me pare evidente, ma altrettanto evidente mi pare la convenienza di politici ed economisti interessati a fare i consiglieri del principe nel continuare a utilizzare il PIL per misurare l'andamento di un sistema economico.
Per inciso, questo è anche il motivo con il quale viene giustificata la ritrosia a ridurre la spesa pubblica. Qualche keynesiano pronto a giustificare ogni spesa, per quanto palesemente parassitaria, lo si trova sempre, sostenendo che quella spesa pubblica rappresenta reddito per determinati individui.
Nel caso specifico, i fondi europei altro non sono che una redistribuzione che avviene tra contribuenti dei diversi Paesi europei. Nel caso dell'Italia, tra l'altro, le uscite superano regolarmente le entrate e derivano per lo più da persone che non beneficiano in alcuna misura dei fondi che rientrano.
Il problema è che un reddito ottenuto a fronte del nulla non rappresenta un aumento di ricchezza, bensì una mera redistribuzione. E coloro ai quali le risorse sono prelevate mediante tassazione per generare quel reddito da spesa pubblica si trovano impossibilitati (e anche disincentivati) a produrre beni e servizi da offrire in scambi volontari, ossia gli unici che possono generare utilità per entrambi i contraenti (checché ne pensino Keynes e i suoi seguaci). Ciò finisce per determinare una minore produzione di ricchezza reale, o addirittura una sua diminuzione.
E a chi obietta che non è necessario aumentare le tasse per finanziare la spesa pubblica, dato che il denaro può essere creato dal nulla, va fatto notare che si tratta semplicemente di passare da una tassazione esplicita a una surrettizia. Ma sempre di redistribuzione si tratta.
In sostanza, non è possibile trasformare le pietre in pane, come argomentò Ludwig von Mises commentando un documento scritto proprio da Lord Keynes.
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