Scorie - (S)pareggio di bilancio
"Assumere quell'impegno con un consenso così vasto, in un contesto di crisi di rara intensità, significava comunicare a tutti gli stakeholders dell'economia italiana: famiglie, imprese nazionali ed estere, investitori domestici e internazionali e a tutta la comunità economica e finanziaria che l'Italia avrebbe adottato per un lungo periodo politiche fiscali ultrarestrittive generando così aspettative di un quadro prospettico molto deprimente che si andava a sovrapporre ad un complesso di debolezze diffuse riveniente dalla grande recessione del 2009 che aveva già traumatizzato non poco il paese. Il risultato che sarebbe scaturito poteva pertanto essere uno solo: un crollo dei consumi, degli investimenti, una perdita generalizzata di ricchezza e un inizio di una nuova spirale depressiva difficilmente arrestabile."
(G. M. Pignataro)
A chi crede che dalla crisi si possa uscire solo ricorrendo a politiche economiche keynesiane, l'idea del pareggio di bilancio è sempre stata indigesta. Nel 2012, quando fu addirittura modificata la costituzione per impegnare l'Italia a smetterla di accumulare deficit, l'acuta tensione che ancora investiva i titoli di Stato italiani affievolì l'opposizione a tale provvedimento, ma oggi sono in molti a tornare alla carica per abolirlo.
Giuseppe Maria Pignataro è tra costoro. E sotto sotto lo sono anche quasi tutti i partiti, a prescindere dallo schieramento politico, che all'epoca dell'introduzione in costituzione del pareggio di bilancio si sentirono con le spalle al muro.
In realtà quel provvedimento, che prevede il pareggio "strutturale" (come è noto, il diavolo sta nei dettagli), scontentò un po' tutti, seppur per motivi diametralmente opposti. I più la pensavano (e continuano a pensarla) come Pignataro. Ma c'era anche chi pensava (e continua a pensare) che sarebbe stato meglio introdurre il vincolo pareggio senza ulteriori qualificazioni e, soprattutto, porre un limite entro il quale far rientrare la spesa pubblica in rapporto al Pil. In caso contrario il pareggio sarebbe stato perseguito rincorrendo la spesa pubblica con aumenti della tassazione, una tradizione piuttosto consolidata in Italia, soprattutto dal famigerato "saccheggio" di Amato sui conti correnti in poi.
Pignataro ritiene che la prospettiva di politiche fiscali restrittive su un lungo orizzonte temporale deprima le aspettative di famiglie, imprese e investitori. Ciò è coerente se si ritiene che lo Stato debba essere un propulsore di crescita economica. La storia (e prima ancora il buon senso) dovrebbe però suggerire che più lo Stato interviene per stimolare la crescita economica, peggio è.
E non è solo una questione di spendere male il denaro finanziato in deficit, favorendo la spesa corrente parassitaria invece dei tanto invocati "investimenti pubblici". Tali "investimenti", quando decisi politicamente, o spiazzano l'iniziativa privata, oppure non soddisfano una reale domanda da parte dei cittadini/consumatori. Per di più, essendo effettuati al di fuori di un contesto concorrenziale tipico del mercato, la moltiplicazione dei costi diventa la regola, non l'eccezione. Tanto paga il contribuente.
Dato, poi, che non si può accumulare deficit all'infinito, le aspettative di aumenti di imposte tenderanno a deprimere i contribuenti. Se nella situazione attuale lo Stato facesse correre il deficit, al di là delle probabili ripercussioni sul costo del debito pubblico, crede Pignataro che i cittadini correrebbero allegri a spendere soldi? A me pare di no, perché l'aspettativa di ulteriori tasse in un futuro non troppo lontano sarebbe inevitabile.
D'altra parte, se lo Stato iniziasse a ridurre la spesa pubblica in misura significativa (non limitandosi a qualche miliardo di minori incrementi rispetto all'anno precedente), sarebbe possibile ridurre veramente la tassazione, non solo a parole come è avvenuto finora. Tagliare la spesa pubblica nell'immediato riduce il Pil, ma potrebbe ridare all'iniziativa privata lo stimolo a produrre ricchezza reale.
Ovviamente si tratta di voler guardare oltre il proprio naso, impresa ardua per i seguaci di Lord Keynes.
(G. M. Pignataro)
A chi crede che dalla crisi si possa uscire solo ricorrendo a politiche economiche keynesiane, l'idea del pareggio di bilancio è sempre stata indigesta. Nel 2012, quando fu addirittura modificata la costituzione per impegnare l'Italia a smetterla di accumulare deficit, l'acuta tensione che ancora investiva i titoli di Stato italiani affievolì l'opposizione a tale provvedimento, ma oggi sono in molti a tornare alla carica per abolirlo.
Giuseppe Maria Pignataro è tra costoro. E sotto sotto lo sono anche quasi tutti i partiti, a prescindere dallo schieramento politico, che all'epoca dell'introduzione in costituzione del pareggio di bilancio si sentirono con le spalle al muro.
In realtà quel provvedimento, che prevede il pareggio "strutturale" (come è noto, il diavolo sta nei dettagli), scontentò un po' tutti, seppur per motivi diametralmente opposti. I più la pensavano (e continuano a pensarla) come Pignataro. Ma c'era anche chi pensava (e continua a pensare) che sarebbe stato meglio introdurre il vincolo pareggio senza ulteriori qualificazioni e, soprattutto, porre un limite entro il quale far rientrare la spesa pubblica in rapporto al Pil. In caso contrario il pareggio sarebbe stato perseguito rincorrendo la spesa pubblica con aumenti della tassazione, una tradizione piuttosto consolidata in Italia, soprattutto dal famigerato "saccheggio" di Amato sui conti correnti in poi.
Pignataro ritiene che la prospettiva di politiche fiscali restrittive su un lungo orizzonte temporale deprima le aspettative di famiglie, imprese e investitori. Ciò è coerente se si ritiene che lo Stato debba essere un propulsore di crescita economica. La storia (e prima ancora il buon senso) dovrebbe però suggerire che più lo Stato interviene per stimolare la crescita economica, peggio è.
E non è solo una questione di spendere male il denaro finanziato in deficit, favorendo la spesa corrente parassitaria invece dei tanto invocati "investimenti pubblici". Tali "investimenti", quando decisi politicamente, o spiazzano l'iniziativa privata, oppure non soddisfano una reale domanda da parte dei cittadini/consumatori. Per di più, essendo effettuati al di fuori di un contesto concorrenziale tipico del mercato, la moltiplicazione dei costi diventa la regola, non l'eccezione. Tanto paga il contribuente.
Dato, poi, che non si può accumulare deficit all'infinito, le aspettative di aumenti di imposte tenderanno a deprimere i contribuenti. Se nella situazione attuale lo Stato facesse correre il deficit, al di là delle probabili ripercussioni sul costo del debito pubblico, crede Pignataro che i cittadini correrebbero allegri a spendere soldi? A me pare di no, perché l'aspettativa di ulteriori tasse in un futuro non troppo lontano sarebbe inevitabile.
D'altra parte, se lo Stato iniziasse a ridurre la spesa pubblica in misura significativa (non limitandosi a qualche miliardo di minori incrementi rispetto all'anno precedente), sarebbe possibile ridurre veramente la tassazione, non solo a parole come è avvenuto finora. Tagliare la spesa pubblica nell'immediato riduce il Pil, ma potrebbe ridare all'iniziativa privata lo stimolo a produrre ricchezza reale.
Ovviamente si tratta di voler guardare oltre il proprio naso, impresa ardua per i seguaci di Lord Keynes.
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