Scorie - Primum non nocere
"Cresceremo ancora una volta meno degli altri, ma almeno usciremo dalla
morta gora in cui siamo invischiati da troppi anni. Cosa può fare in questo
frangente la politica? E' triste doverlo dire, ma l'unica cosa che famiglie
e imprese possono chiedere ai palazzi e alle stanze dei bottoni (si fa per
dire) è di ricordare il giuramento ippocratico: "primum non nocere". Non
chiediamo altro."
(F. Galimberti)
Per una volta sarei quasi tentato dal non dissentire con Galimberti, nel
senso che quel "primum non nocere" rivolto alla politica risponde al buon
senso, a mio parere.
La differenza tra Galimberti e me, in questo caso, è che lui ritiene che
sia "triste doverlo dire", mentre io penso che sia triste aspettarsi che
chi sta nelle stanze dei bottoni possa risolvere problemi, invece che
crearne. La sua tristezza deriva dal fatto che, considerando la situazione
di finanza pubblica (ben più che precaria) e i vincoli all'aumento del
deficit, la politica fiscale non può essere utilizzata per sostenere la
domanda aggregata con interventi che abbiano effetti (per lo più effimeri)
nel breve termine.
Non è che il governo non possa utilizzare in assoluto la politica fiscale:
semplicemente non può utilizzarla come piace tanto ai keynesiani, ossia
lasciando che la spesa pubblica produca l'effetto di gonfiare il Pil oggi,
generando poi un deficit che si accumula nel debito e porta a problemi
domani, se non svalutato con l'inflazione.
In un mondo ideale ritengo che non dovrebbero esistere interventi
governativi, per cui non dovrebbe esserci neppure la politica fiscale. Ma
siamo in un mondo tutt'altro che ideale, quindi la politica fiscale
potrebbe e dovrebbe, a mio parere, essere utilizzata. E dovrebbe essere
utilizzata precisamente per ridurre il peso dello Stato e le sue intrusioni
nell'economia.
La politica fiscale dovrebbe quindi essere usata per tagliare la spesa
pubblica e ridurre la tassazione, ossia per fare l'esatto contrario di
quello che viene fatto da anni (più precisamente: decenni). Ma il
meccanismo assurdo con il quale viene misurato il prodotto interno lordo
considera la spesa pubblica come componente positivo del Pil. Quindi una
riduzione di spesa si traduce immediatamente in un calo del Pil (e non
stiamo ora a discutere della questione tanto cara ai keynesiani del
moltiplicatore fiscale), mentre la conseguente spinta propulsiva della
maggiore componente privata della domanda aggregata può non essere (e
spesso non è) contestuale.
Questo induce i keynesiani a essere generalmente freddi (per usare un
eufemismo) nei confronti dei tagli di spesa, e ciò fornisce un ottimo
appiglio a chi governa per non tagliare nulla. Resta il fatto che la spesa
privata e quella pubblica sono identiche solo nella forma (contabile), non
nella sostanza. La spesa pubblica viene finanziata da tasse presenti o
future (anche implicite, come l'inflazione), ed è utilizzata per lo più in
contesti monopolistici e non imprenditoriali. All'aumentare dell'incidenza
della spesa pubblica sul Pil, le risorse reali che il settore privato può
destinare a consumi e investimenti diminuisce, e ciò riduce il potenziale
di crescita del Pil medesimo.
Anche prescindere da considerazioni etiche sulla redistribuzione operata
tramite la tassazione, credo quindi che solo una forte miopia possa indurre
a privilegiare il sostegno del Pil mediante spesa pubblica oggi scontando
una sua minore crescita domani e dopodomani. Ma per chi crede che "nel
lungo periodo saremo tutti morti" il domani non ha alcuna importanza. E gli
effetti si vedono.
morta gora in cui siamo invischiati da troppi anni. Cosa può fare in questo
frangente la politica? E' triste doverlo dire, ma l'unica cosa che famiglie
e imprese possono chiedere ai palazzi e alle stanze dei bottoni (si fa per
dire) è di ricordare il giuramento ippocratico: "primum non nocere". Non
chiediamo altro."
(F. Galimberti)
Per una volta sarei quasi tentato dal non dissentire con Galimberti, nel
senso che quel "primum non nocere" rivolto alla politica risponde al buon
senso, a mio parere.
La differenza tra Galimberti e me, in questo caso, è che lui ritiene che
sia "triste doverlo dire", mentre io penso che sia triste aspettarsi che
chi sta nelle stanze dei bottoni possa risolvere problemi, invece che
crearne. La sua tristezza deriva dal fatto che, considerando la situazione
di finanza pubblica (ben più che precaria) e i vincoli all'aumento del
deficit, la politica fiscale non può essere utilizzata per sostenere la
domanda aggregata con interventi che abbiano effetti (per lo più effimeri)
nel breve termine.
Non è che il governo non possa utilizzare in assoluto la politica fiscale:
semplicemente non può utilizzarla come piace tanto ai keynesiani, ossia
lasciando che la spesa pubblica produca l'effetto di gonfiare il Pil oggi,
generando poi un deficit che si accumula nel debito e porta a problemi
domani, se non svalutato con l'inflazione.
In un mondo ideale ritengo che non dovrebbero esistere interventi
governativi, per cui non dovrebbe esserci neppure la politica fiscale. Ma
siamo in un mondo tutt'altro che ideale, quindi la politica fiscale
potrebbe e dovrebbe, a mio parere, essere utilizzata. E dovrebbe essere
utilizzata precisamente per ridurre il peso dello Stato e le sue intrusioni
nell'economia.
La politica fiscale dovrebbe quindi essere usata per tagliare la spesa
pubblica e ridurre la tassazione, ossia per fare l'esatto contrario di
quello che viene fatto da anni (più precisamente: decenni). Ma il
meccanismo assurdo con il quale viene misurato il prodotto interno lordo
considera la spesa pubblica come componente positivo del Pil. Quindi una
riduzione di spesa si traduce immediatamente in un calo del Pil (e non
stiamo ora a discutere della questione tanto cara ai keynesiani del
moltiplicatore fiscale), mentre la conseguente spinta propulsiva della
maggiore componente privata della domanda aggregata può non essere (e
spesso non è) contestuale.
Questo induce i keynesiani a essere generalmente freddi (per usare un
eufemismo) nei confronti dei tagli di spesa, e ciò fornisce un ottimo
appiglio a chi governa per non tagliare nulla. Resta il fatto che la spesa
privata e quella pubblica sono identiche solo nella forma (contabile), non
nella sostanza. La spesa pubblica viene finanziata da tasse presenti o
future (anche implicite, come l'inflazione), ed è utilizzata per lo più in
contesti monopolistici e non imprenditoriali. All'aumentare dell'incidenza
della spesa pubblica sul Pil, le risorse reali che il settore privato può
destinare a consumi e investimenti diminuisce, e ciò riduce il potenziale
di crescita del Pil medesimo.
Anche prescindere da considerazioni etiche sulla redistribuzione operata
tramite la tassazione, credo quindi che solo una forte miopia possa indurre
a privilegiare il sostegno del Pil mediante spesa pubblica oggi scontando
una sua minore crescita domani e dopodomani. Ma per chi crede che "nel
lungo periodo saremo tutti morti" il domani non ha alcuna importanza. E gli
effetti si vedono.
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