Scorie - Le città della (non) libertà

In un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, Robert Muggah e Carlo Ratti criticano le cosiddette "città della libertà", sostenendo comunque che "l'idea non è da scartare".

Agli occhi degli autori, le "città della libertà" hanno due difetti esiziali: sono "sostenute dall'élite tecno-libertaria della Silicon Valley" e, cosa ancora peggiore, sono state "recentemente abbracciate da politici di destra come Donald Trump".

Scrivono Muggah e Ratti:

"I sostenitori delle città della libertà vogliono ridurre la burocrazia, rilanciare l'innovazione e risolvere la crisi degli alloggi in America. In pratica, però, questi progetti rischiano di diventare delle ridotte per i più ricchi, dei feudi manageriali in cui la disuguaglianza è incorporata nelle fondamenta. Mentre i promotori parlano di libertà, il loro modello affida la governance ai consigli di amministrazione delle società piuttosto che alle urne. Tuttavia, l'idea di base di utilizzare insediamenti appositamente costruiti come piattaforme per la sperimentazione non dovrebbe essere scartata. Nel corso della storia, le città sono servite come crogioli per le riforme politiche ed economiche. Dall'Atene periclea alla moderna Barcellona, le comunità urbane sono state pioniere di innovazioni nella governance, nella pianificazione e nella partecipazione. La sfida non sta nel costruire nuove città, ma nel garantire che esse siano al servizio della democrazia, anziché minarla."

A mio parere la questione relativa alla libertà dovrebbe essere inquadrata considerando l'assenza di imposizioni statali e l'autodeterminazione delle regole di funzionamento di queste città, nonché l'adesione volontaria al rispetto di quelle regole da parte di tutti i cittadini, liberi di andarsene altrimenti. Farebbe ovviamente parte di questa adesione volontaria anche l'accettazione di come sono varate e variate le regole.

Alcune città potrebbero essere come dei principati, altre come democrazie, ma se l'esempio di democrazia deve essere quella ateniese, buona parte dei cittadini non avrebbe in ogni caso alcuna voce in capitolo nelle decisioni sulle regole. Il che, peraltro, rende la democrazia ateniese meno ipocrita di quella odierna, nella quale formalmente il potere spetta a tutti i cittadini, ma sostanzialmente ogni cittadino non vale nulla ed è poi sottoposto a obblighi e divieti decisi dallo Stato, senza alcun vincolo di mandato per gli eletti.

Come accennavo, gli autori vedono come un pericolo autoritario il fatto che queste città non sarebbero (quanto meno non necessariamente) democrazie, dato che "queste iniziative non mirano tanto a migliorare le città quanto a ripensare la sovranità", in cui "la cittadinanza diventa un abbonamento, la governance un servizio e i diritti un ripensamento."

Il punto resta quello a cui accennavo in precedenza: se sono su base volontaria, perché non potrebbero essere? Pare che sia perché non sono a conduzione pubblica.

"Le critiche all'inefficienza del governo forniscono a questi progetti una copertura politica. I sostenitori delle città libere inveiscono contro le regole di zonizzazione, i ritardi nei permessi e la supervisione, attingendo alle frustrazioni diffuse su alloggi e infrastrutture. Vedono i diritti del lavoro, le protezioni ambientali e la partecipazione civica come inefficienze da "ottimizzare". Il risultato è meno Atene e più Amazon: efficiente, centralizzata, orientata al profitto e priva di qualsiasi responsabilità democratica."

Ognuno può pensare tutto il male che vuole di Amazon (e questo vale in generale per tutte le società che hanno un forte potere di intrusione nei dati riguardanti le persone), ma a tutt'oggi è possibile non esserne clienti né dipendenti e, se lo si è, si può smettere di esserlo senza essere perseguibili dalla stessa Amazon.

Questo non sembra interessare Muggah e Ratti:

"La storia ci mette in guardia. Capitali pianificate dall'alto come Brasília e Chandigarh possono aver offerto un'architettura abbagliante, ma hanno faticato a creare comunità resilienti e inclusive. Le città aziendali del XX secolo hanno mostrato come il controllo aziendale di alloggi e servizi rafforzi ulteriormente le disuguaglianze ed eroda i diritti. Senza tutele, le città della libertà rischiano di ripetere questi errori sotto una nuova veste digitale."

Direi che sarebbe meglio non confondere città a pianificazione pubblica, dove ci sono pagatori di tasse, da città aziendali, dove alla base ci sono contratti sottoscritti volontariamente.

In fin dei conti, il problema pare essere che non si tratta, sovente, di esperimenti voluti da autoproclamati "progressisti".

"I progressisti dovrebbero rivendicare il dibattito libertà-città, non cederlo ai tecno-autoritari. Le nuove città potrebbero fungere da sandbox per l'innovazione democratica. Potrebbero avere assemblee partecipative invece di carte aziendali. La casa potrebbe essere vista come un diritto, piuttosto che come un investimento. La sovranità digitale prevarrebbe sul colonialismo digitale. Gli strumenti esistono: la governance cooperativa, la progettazione adattata al clima, i servizi di base universali e i beni digitali pubblici sono già stati sperimentati in tutto il mondo."

Posto che nulla vieta di avere città organizzate come vorrebbero gli autori, il problema è che "la casa come diritto" e i "servizi di base universali" presuppongono che qualcuno paghi il conto. Se qualcuno lo fa volontariamente, nessun problema. E' la base delle strutture cooperative. 

Ma non c'è alcun accenno alla volontarietà da parte di Muggah e Ratti, il che mi fa supporre che, in ultima analisi, si tratterebbe solo di cambiare la forma rispetto alle città attuali. Il problema è che se non cambia la sostanza, la "sandbox per l'innovazione democratica" sembra più il titolo da dare a un convegno tra accademici e politici sinistrorsi (e ferocemente redistributori) che un autentico viatico per un futuro di città libere.

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