Scorie - Il bail-in in un sistema a riserva frazionaria non risolve il problema

"Il bail-in è stato applicato a Cipro, in Spagna, in Portogallo, in Grecia e non ha avuto conseguenze destabilizzanti. Si intravede poi il rischio che il bail-in possa scoraggiare i piccoli risparmiatori da investire nei bond bancari. Ma in realtà non dovrebbero farlo: la normativa Mifid lo vieta. In nessun altro Paese europeo c'è una quota così elevata di titoli bancari rischiosi in mano a piccoli investitori. La Brrd, la regolamentazione europea sul bail-in, è stata approvata nel 2014. I governi hanno avuto un periodo di transizione di due anni per poter adeguare le loro legislazioni e per dare tempo alle banche di informare I risparmiatori. Questo adeguamento in Italia non è avvenuto, è bene che avvenga al più presto: è l'unico modo per tutelare il risparmio."
(E. Faia)



Ho tratto le parole riportate da un articolo firmato da Ester Faia, che insegna Economia monetaria e fiscale alla Goethe University di Francoforte. La sua è la posizione che va per la maggiore in Germania e tra i tecnocrati della Commissione europea in merito al coinvolgimento di azionisti e creditori nella ristrutturazione delle banche.

Personalmente non sono contrario al bail-in in quanto alternativa al bail-out, perché in linea di principio chi è azionista o creditore di una società dovrebbe far fronte alle perdite derivanti dalla crisi di quella società e non dovrebbero essere chiamati i contribuenti in generale a coprire i buchi di bilancio.

Ho anche sostenuto in più occasioni che il problema vero della strutturale instabilità delle banche risiede nel meccanismo della riserva frazionaria, unito a una significativa trasformazione delle scadenze (per di più con gran parte dell'attivo tendenzialmente illiquido) e a una carenza di mezzi propri rispetto al debito. Questi elementi rendono fondamentale per la sopravvivenza delle banche che i depositanti mantengano fiducia nella solvibilità delle stesse, altrimenti si creano le corse agli sportelli con buone probabilità di effetto domino e crisi sistemica.

Il bail-out ha, per decenni, puntellato la sopravvivenza del sistema a riserva frazionaria. La sostituzione del bail-out con il bail-in ha quindi senso, ma per funzionare dovrebbe essere accompagnata dalla eliminazione della riserva frazionaria. Va da sé che nessun politico, tecnocrate e banchiere vede di buon occhio l'abolizione della riserva frazionaria, perché il credito diventerebbe una frazione di quello attualmente concesso dalle banche, costerebbe inevitabilmente di più per chi lo ottiene e con ogni probabilità ridurrebbe ulteriormente la profittabilità dell'attività bancaria, che peraltro già è zavorrata da costi esorbitanti derivanti da iper-regolamentazione..

Sostenere, quindi, che il bail-in non abbia conseguenze destabilizzanti, non è realistico nelle attuali condizioni, non solo in Italia. In merito agli esempi citati da Faia occorre ricordare che non si è applicato per intero il bail-in, bensì il burden sharing (condivisione dei costi della crisi) accompagnato da consistenti interventi del cosiddetto fondo europeo salva Stati.

Cipro è l'unico caso in cui sono stati colpiti i depositanti, ma per due motivi specifici: in primo luogo, perché non c'erano, se non in misura irrisoria, obbligazioni subordinate o senior; in secondo luogo, perché la maggior parte dei depositi oltre i 100mila euro facevano capo a soggetti esteri, per lo più russi. In nome del "pragmatismo" la Commissione europea decise di colpire quei depositanti.

In Spagna, Portogallo e Grecia gli aiuti europei (quindi a carico dei contribuenti europei) sono stati consistenti. Per di più, soprattutto in Portogallo, la gestione pasticciata e discriminatoria della suddivisione delle perdite tra contribuenti e creditori ha finito per allontanare gli investitori istituzionali dai titoli portoghesi.

Anche su un altro punto Faia sostiene cose inesatte, riferendosi al caso italiano. E' certamente vero che in Italia la diffusione di obbligazioni bancarie (anche subordinate, ma in netta prevalenza senior) presso investitori retail è superiore a quella riscontrabile negli altri Paesi europei. Non è affatto vero, però, che la normativa Mifid vieti l'investimento in obbligazioni bancarie alla clientela retail. La Mifid vieta la vendita di prodotti inadeguati al profilo dell'investitore se in ambito di un contratto di consulenza in materia di investimenti. Non sempre quei prodotti erano inadeguati e, soprattutto, la loro rischiosità è cambiata nel corso del tempo, non solo per via del peggioramento dei bilanci delle banche emittenti, bensì anche per via dell'introduzione della direttiva BRRD (quella che, tra le altre cose, prevede il bail-in) con effetto retroattivo.

Questo non significa che non siano stati diversi i casi in cui l'investimento fosse inadeguato. Ma sostenere che fosse sempre e comunque vietato non corrisponde al vero.

Credo sia anche opportuno fare chiarezza sul perché in Italia la raccolta retail da parte delle banche sia stata effettuata con obbligazioni e non solo con depositi. Il motivo è prevalentemente di tipo fiscale, e risale agli anni 90. In particolare, il punto di svolta che fece aumentare decisamente l'emissione di obbligazioni fu il D. Lgs. 239 del 1996, che introdusse l'imposta sostitutiva per le obbligazioni nella misura del 12,50%, mentre i depositi erano soggetti a ritenuta alla fonte nella misura del 27%.

Ecco spiegato perché ebbero così grande diffusione le obbligazioni bancarie collocate a clienti retail. Per una banca raccogliere 1000 euro con una obbligazione o con un certificato di deposito sarebbe pressoché indifferente, a parità di tasso di interesse e scadenza. Ma fino al 2012, quando le aliquote furono uniformate (al 20%, aumentato al 26% nel 2014), c'era una grande differenza in termini di rendimento netto per il sottoscrittore, a parità di rendimento lordo.

Va anche ricordato che le obbligazioni sono negoziabili (ancorché spesso illiquide), mentre i certificati di deposito generalmente non lo sono.

Resta poi ingiustificata, a mio parere, la garanzia del fondo di tutela dei depositi estesa ai depositi a scadenza, purché nominativi. In sostanza, tra chi sottoscrive un'obbligazione a 5 anni e un certificato di deposito nominativo a 5 anni che differenza c'è? Credo che non ce ne siano, se non per un arbitrio legislativo. Fatto sta che l'obbligazionista non è garantito, a differenza di chi ha un certificato di deposito nominativo, coperto fino a 100mila euro.

Posto che l'unica garanzia per i depositanti che può reggere davvero si avrebbe con l'abolizione della riserva frazionaria, dato che se c'è una crisi sistemica non c'è fondo di tutela che regga, garantire i depositanti a vista ha senso, perché, ancorché la legislazione preveda arbitrariamente il contrario, chi mantiene la disponibilità a vista della somma depositata non sta prestando i soldi alla banca. Viceversa, chi vincola il deposito a una certa scadenza sta facendo credito alla banca, scambiando un bene attuale contro uno futuro. Perché tutelare questo creditore e non quello che presta soldi sottoscrivendo un'obbligazione? Sarebbe bene non tutelare nessuno dei due.

Faia ricorda che la BRRD è stata approvata nel 2014 e che la transizione non è stata gestita correttamente in Italia. Questo è indubbiamente vero, così come è indubbio che chi negoziava per conto dell'Italia non ha voluto o saputo far valere le specificità del caso italiano in merito alla raccolta in obbligazioni presso la clientela retail, prevedendo quanto meno che il bail-in non fosse retroattivo.

Resta il fatto che l'applicazione del bail-in in un sistema a riserva frazionaria credo sia destinato ad avere effetti destabilizzanti, finendo per far perdere soldi sia ai creditori (oltre che agli azionisti, ovviamente), sia ai contribuenti. Il tutto per via della pretesa vana da parte dei tecnocrati di poter gestire ordinatamente le crisi bancarie con una via di mezzo tra disciplina di mercato e intervento pubblico. Così non può funzionare.
 
 
 
 
 


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