Scorie - Il pastore tassatore - parte quarta (fine)

"C'è infine un terzo orizzonte etico da tenere presente, che riguarda
l'affidabilità delle garanzie offerte da chi governa riguardo al buon uso
del denaro pubblico… Occorre una volontà politica e un'azione trasparente
di governo che diano ai cittadini la percezione chiara dell'affidabilità di
chi gestirà le risorse provenienti dal contributo di ciascuno. Anche così
l'etica deve venire in aiuto all'economia: il sussulto morale più volte
richiesto appare più che mai urgenza indilazionabile, disattendendo alla
quale si compromette l'avvenire di tutti. La responsabilità etica del
commercialista non potrà non portarlo a dar voce all'esigenza di giustizia
e trasparenza nell'uso del denaro pubblico, condizione perché anche le
altre esigenze morali che lo riguardano possano essere propriamente
perseguite."
(B. Forte)

Dopo aver più o meno esplicitamente invitato i commercialisti a suggerire
al legislatore riforme fiscali di tipo squisitamente socialista (ovviamente
per il "bene comune"), monsignor Forte aggiunge che gli stessi dovrebbero
"dar voce all'esigenza di giustizia e trasparenza nell'uso del denaro
pubblico".

Uno potrebbe considerare condivisibile la richiesta di un uso giusto e
trasparente del denaro pubblico, ma a patto di credere alle favole e di
ritenere che non si tratti di una grande illusione smentita da secoli di
storia, oltre che dai fatti di cronaca.

Né, credo, potrebbe essere altrimenti: la corruzione e lo sperpero del
denaro dei contribuenti non sono addebitabili unicamente alla disonestà di
un numero più o meno consistente di politici e burocrati, bensì sono una
caratteristica pressoché inevitabile di ogni forma di statalismo.

Che basti avere persone oneste a maneggiare le ricchezze prodotte da altri
e a costoro estorte per avere una amministrazione che sia quanto meno
scevra da ruberie e sprechi vari è ciò che i redistributori e gli
statalisti vanno ripetendo costantemente, talvolta in buona fede, altre in
mala fede.

Oltre che dalla storia e dalla cronaca, questa visione è smentita dal buon
senso (che, però, viene considerato cinismo da redistributori e
statalisti): chi amministra risorse non di sua proprietà senza peraltro
dover rendere compiutamente conto al legittimo proprietario delle stesse di
ciò che fa e senza essere sottoposto alla concorrenza che solo in un libero
mercato può esistere, non ha alcun incentivo a ben amministrare quelle
risorse. Per di più, gli incentivi a farsi corrompere da coloro che hanno
interesse a concludere contratti con l'ente che amministra sono, per così
dire, non trascurabili.

Probabilmente monsignor Forte crede che gli amministratori pubblici e i
burocrati siano o possano essere dei santi, ma l'esperienza del basso
numero di santi all'interno della sua stessa "casa madre" – dove, almeno in
teoria, lo spessore morale (secondo i canoni dello stesso Forte) dovrebbe
essere superiore alla media di quello dei cittadini laici – dovrebbe
rendere evidente anche a lui che le cose non stanno, né potrebbero stare,
così.

Se si vuole ridurre la corruzione, si deve ridurre il campo d'azione di chi
può essere corrotto. Se si vuole azzerare la corruzione, si deve azzerare
il campo d'azione di chi può essere corrotto. SPerare nella santità di chi
può essere corrotto è semplicemente assurdo.

Tutto ciò detto, non capisco poi per quale motivo i commercialisti
dovrebbero avere titoli specifici rispetto agli altri cittadini per farsi
carico di sollecitare una condotta "morale" da parte di chi usa il denaro
pubblico. Il mio sospetto è che il richiamo sia dovuto a una sorta di
pigrizia da parte di Forte, il quale non ha fatto altro che riprendere (con
parti copiate perfino nella punteggiatura) un altro pezzo scritto da lui
stesso nel 2012. Ma quando si tratta di "morale" ci sono parole e frasi
fatte buone per tutte le occasioni.

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